Dovremmo (ancora) essere tutti femministi?
C'è qualcosa che possiamo imparare dalla debacle di 'fascistella'?
Sono passati dodici anni da quando la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie tenne un discorso che avrebbe avuto un impatto fondamentale sulla cultura globale. We should all be feminists, diceva (dovremmo essere tutti femministi) e quelle parole finirono stampate sulle magliette di Dior, campionate in una canzone di Beyoncé, citate nei manifesti delle marce, ripetute in milioni di caption su Instagram.
Io stessa fui catturata dal librettino pubblicato da HarperCollins con il testo del suo discorso, e per anni quel piccolo volume è stato esposto ben in vista delle librerie di tante case in cui ho vissuto dal 2014 a oggi.
Dodici anni dopo, mi ritrovo a formulare nella mia testa quel titolo non più come un’affermazione ma come una domanda: dovremmo essere tutti femministi?
Intendiamoci: negli anni il mio impegno e la mia convinzione della necessità di superare il modello patriarcale sono solo cresciuti. Quello che mi chiedo, però, è se l’adesione al femminismo, se la definizione di sé stessi come femministə, sia l’unica strada per arrivare a un sistema alternativo a quello attuale.
Come rileva
nel suo libro Il femminismo non è un brand, mentre in passato a definirsi femministe erano coloro che si univano a un collettivo o a un gruppo di autocoscienza, condividendo una pratica politica, un lavoro su di sé e sulla propria comunità, negli ultimi anni per definirsi femministe è bastato seguire alcuni account Instagram, e indossare certe t-shirt.Il discorso femminista è potuto esplodere in termini numerici anche perché si è trasformato in un linguaggio di appartenenza più che in una faticosa pratica di liberazione di sé e degli altri dalle logiche del dominio dei più forti.
Insomma, parliamoci chiaro: il femminismo è sempre stato percepito come un po’ cringe, e quindi non molto affascinante per un pezzo significativo della popolazione. A un certo punto è diventato cool e un sacco di persone che prima lo avevano guardato con sospetto hanno pensato sai che c’è? sono femminista pure io.
Questo allargamento della platea ha portato una serie di risultati decisamente positivi perché ha permesso di raggiungere persone che non si era mai riusciti a raggiungere prima e ad accelerare la diffusione della consapevolezza dei problemi generati per tutti dalla sottorappresentazione e dall’oppressione femminile.
Com’è ovvio, però, ha anche portato a una serie di effetti collaterali con i quali adesso stiamo facendo i conti. Per quanto mi riguarda, il maggiore tra questi è la diffusione delle logiche del pensiero unico proprio all’interno di un movimento nato per combatterle.
Negli ultimi anni, molte figure pubbliche che si definiscono femministe — in Italia come altrove — hanno iniziato a usare il femminismo come linguaggio di appartenenza, più che come pratica politica o spirituale.
È come se il femminismo fosse diventato un passaporto simbolico, una credenziale identitaria che garantisce accesso a una comunità riconoscibile, ma spesso chiusa.
Essere femminista oggi, in certi spazi digitali, sembra significare soprattutto esserlo nel modo giusto: usare le parole giuste, sostenere le persone giuste, prendere posizione al momento giusto.
Ogni gesto è sottoposto a un controllo collettivo costante, e la paura di sbagliare pesa più del desiderio di comprendere.
In questa logica, per una parte numericamente significativa di persone, il femminismo si è trasformato in un’attività performativa: un modo per mostrare la propria virtù morale e per guadagnare consenso.
I social media, con la loro fame di contenuti veloci e polarizzati, hanno accelerato questo processo: più che una pratica di liberazione, il femminismo ha smesso di essere uno strumento per la trasformazione del mondo, ed è diventato una postura pubblica fine a sé stessa.
Non parlo solo delle influencer o delle campagne dei brand — anche se la loro estetica patinata e moralmente rassicurante ne è la punta più visibile.
Parlo di tutte le volte in cui, nel nostro piccolo, ci sentiamo in dovere di “posizionarci” su ogni tema, di dichiarare il nostro allineamento con una certa ortodossia per paura di essere escluse o fraintese. O tutte le volte in cui pretendiamo che le persone intorno a noi prendano una posizione per decidere se sono o meno meritevoli della nostra stima.
È un meccanismo umano, comprensibile, ma pericoloso.
Perché quando la liberazione diventa performance, smette di trasformarci.
E quando la coerenza ideologica diventa più importante dell’ascolto, torniamo a parlare la lingua del potere che volevamo scardinare.
Mi chiedo spesso se questa versione del femminismo — più estetica che etica, più gesto che processo — non finisca per tradire la sua promessa originaria: liberarci dalle maschere, non fabbricarne di nuove.
Il femminismo è un fine o un mezzo?
Per quello che ho potuto osservare, in tutti quei contesti in cui il femminismo si pone come “fine”, c’è un rischio di comportamenti tossici significativamente più alto. I discorsi sulla “cura” hanno offerto la sponda a vere e proprie campagne d’odio in molti contesti nei quali prendersi cura (ma solo di chi la pensa come noi) ha giustificato epurazioni, azioni di sabotaggio di gruppi vicini, e la corrosione della stessa idea di convivenza e collaborazione con chi è diverso da noi che è alla base non del femminismo, ma della democrazia.
I maschi nel femminismo
All’interno di questi contesti, per esempio, è difficilissimo per gli uomini trovare un posto dignitoso in cui dare il proprio contributo al superamento del patriarcato.
Quando si lavora a una transizione culturale di questa portata, è sciocco pretendere che tutti arrivino allo stesso cambiamento percorrendo la stessa strada. Ci sarà chi ci arriverà passando da alcune parole, da alcune esperienze o riflessioni, e chi avrà bisogno di arrivarci in modo radicalmente diverso.
Il punto è costruire un'identità di destino, più che un’identità di lotta.
È paradossale, ma se costruiamo la nostra identità sulla lotta, faremo di tutto per dividerci e difendere la nostra specifica modalità di lotta, e quindi per *non* ottenere ciò che dichiariamo di volere. Perché?
Semplice: se abbiamo costruito la nostra identità sulla lotta e otteniamo ciò per cui abbiamo lottato… perdiamo il senso di chi siamo.
Costruire un’identità di destino, invece, ci rende più collaborativi e ci aiuta a considerare la possibilità che altri lavorino per un fine comune in modi diversi dal nostro. Banalmente, rende possibile una dialettica e ci restituisce la possibilità del pensiero plurale.
In passato quando qualcuno mi diceva di non essere femminista, mi arrabbiavo.
Mi sembrava un rifiuto personale, un tradimento della causa.
Oggi penso che la persona che ho davanti stia semplicemente percorrendo una strada diversa dalla mia. Mi interessa più chi cerca di indagare il proprio bisogno di appartenenza che chi si accontenta di dichiararla.
La debacle di “Fascistella”
Non starò qui a ignorare l’elefante nella stanza.
La vicenda delle chat “Fascistella” è solo l’episodio più visibile di questa crisi: il segnale che un linguaggio nato per liberare può facilmente diventare strumento di controllo.
Questo però non riguarda solo le persone finite sui giornali: i fenomeni social li creiamo tutti insieme ed è troppo comodo lavarsene le mani senza fare un pezzetto di autoanalisi.
Il femminismo offre una straordinaria quantità di strumenti utilissimi, ed è un patrimonio di riflessione e pratica politica di enorme valore. Conoscerlo, farne esperienza, può facilitare molti processi. Ma questo non significa che aderirvi debba essere l’unica strada per superare il patriarcato. Forse non dobbiamo necessariamente essere tutti femministi; forse dobbiamo moltiplicare le opportunità e le vie che si possono percorrere per costruire un mondo in cui, come diceva bell hooks, la logica dell’amore sostituisca quella del dominio.
E il fatto che questa frase suoni ancora così cringe — beh, mi sembra un ottimo segnale.
Un’ultima cosa, anzi 2
Da oggi la newsletter ha un nuovo logo, lo avete notato?
Era da tempo che volevo metterci le mani perché quello che c’è stato finora era poco più che un segnaposto. Che ne pensate?
In questi giorni mi sono trasferita nel mio nuovo studio, e mi è finalmente arrivato un microfono eccezionale e un mixer che non vedo l’ora di provare. Come vi dicevo, vorrei che Maschi del Futuro tornasse ad essere anche un podcast per raggiungere anche chi non ce la fa a leggere da uno schermo, o ci ascolta mentre guida etc.
Solo che non ce la faccio a fare io anche il montaggio audio degli episodi, e quindi devo prendere qualcuno che lo faccia. Al momento, a Maschi del Futuro ci sono 350 abbonati a pagamento (grazieee): se ne raggiungiamo 450 riesco ad avere le risorse necessarie per fare questa cosa. Ogni settimana ci sono circa 20.000 persone che leggono questa newsletter gratuitamente, basta che lo 0.5% di voi decida di sostenere Maschi del Futuro per centrare l’obiettivo.
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Ringrazio anche tutti coloro che stanno continuando ad acquistare Storie Spaziali per Maschi del Futuro, che dopo più di un anno dall’uscita continua ad essere al numero uno delle antologie di fiabe più acquistate in Italia. Insieme, stiamo aiutando le nuove generazioni di bambini e bambine a crescere con un’idea più sana di maschile, e questo mi riempie il cuore di gioia.
A giovedì!





"Semplice: se abbiamo costruito la nostra identità sulla lotta e otteniamo ciò per cui abbiamo lottato… perdiamo il senso di chi siamo."
Si tenga a mente che devo abbracciarla
Benissimo scritto. Argomentato, pensato. Bene assai. P.D.