#20 Il calcio e la vita emotiva dei maschi
Perché si ha così tanta paura dell'omoerotismo che permea uno degli sport con il maggiore coefficiente di omofobia sulla Terra.
Ciao!
Prima di tutto, sappi che ascoltare questa newsletter ti risulta più comodo che leggerla, puoi farlo o qui oppure anche su Spotify. Nella versione audio trovi anche la sigla improbabile dal titolo “Maschi del Future” composta da una intelligenza artificiale abbastanza ironica.
Connor Beaton è il fondatore di ManTalks, una organizzazione internazionale dedicata alla crescita personale e professionale degli uomini.
Nel suo TEDx - che vi consiglio - Beaton racconta del giorno in cui, da studente di scuola elementare ad Alberta (Canada), finalmente decise di prendere coraggio e di offrirsi volontario per andare al microfono a cantare l’inno nazionale, cosa che nella sua scuola veniva fatta ogni venerdì mattina (era una scuola cattolica, e prima di cantare l’inno nazionale dicevano una preghiera).
Si era esercitato moltissimo, e cantò l’inno con grande trasporto. Quando uscì dall’aula della presidenza era orgoglioso. Finché non girò l’angolo del corridoio, e incontrò un altro ragazzo che faceva la prima media.
“Eri tu al microfono a cantare l’inno nazionale?” gli chiese il ragazzo.
“Sì!” rispose Beaton con un sorriso.
Al che, il ragazzo gli assestò un pugno nello stomaco. Non capendo cosa fosse appena successo, Beaton gli chiese:
“Perché?”
E il ragazzo, senza fare una piega, gli disse:
“Non fare la cagna. Cantare è una cosa da femmine.”
E se ne andò.
Una delle cose difficili, ma importanti, da tenere a mente è che la quasi totalità degli uomini che vediamo intorno a noi è cresciuta avendo esperienze simili. I messaggi che i maschi ricevono fin da piccoli, attraverso scambi come quelli che ho riportato qui sopra sono:
Non piangere
Non esprimere emozioni fuori dalla rabbia, a meno che non sia per la tua squadra del cuore
Non mostrare empatia per gli altri
Se fanno del male a te o a qualcuno a cui tieni, vendicati
Sii forte
Non essere una femmina
L’hashtag #nohomo su X
La sociologa americana C.J. Pascoe ha effettuato uno studio estremamente interessante sull’uso del linguaggio omofobico sui social media. Ha scoperto così che uno degli hashtag più utilizzati in questo contesto è #nohomo, una versione abbreviata di “non sono omosessuale”, usato più di 14 milioni di volte dal 2012 a oggi.
Quello che la sociologa ha scoperto è che questa frase non è usata più di tanto per esprimere offese nei confronti delle persone LGBTQIA: era invece usata nel contesto in cui degli uomini etero volevano esprimere sentimenti di amicizia nei confronti di altri uomini, di affetto, o di vulnerabilità emotiva e temevano che qualcuno avrebbe potuto pensare che erano gay.
Nel suo libro Dude, You’re a Fag: Masculinity and Sexuality Pascoe rivela che i ragazzi della scuola superiore usano un linguaggio omofobico non perché abbiano una specifica ostilità nei confronti delle persone LGBTQIA, ma per difendere una interpretazione tradizionale della propria maschilità davanti al gruppo.
Il calcio e l’omofobia
Emozionarsi per qualcosa che non sia la propria squadra del cuore è considerato un segno di debolezza nei maschi.
Lo sport, e in particolare il calcio, sono gli unici luoghi in cui per i maschi è possibile esprimere senza freni il proprio desiderio di appartenenza, la propria voglia di condividere gioie e dolori, la propria commozione, e anche una prossimità fisica che è inaccessibile in ogni altra situazione nella vita di un uomo.
Forse è questa la ragione per cui nel mondo del calcio maschile l’omosessualità è un tabù così enorme. L’omoerotismo nel calcio è così ubiquo che nominarlo vorrebbe dire frantumare uno dei pilastri della finzione di cui si nutre quella interpretazione così pusillanime della maschilità - al momento maggioritaria - che di quel silenzio si nutre, e che in quel non detto prospera.
Man mano che l’accettazione degli omosessuali ha iniziato a diffondersi, il calcio ha continuato a difendere la propria identità maschile ed eterosessuale
Valerio Moggia, L’omofobia nel calcio, Valigia Blu
Ma noi invece possiamo fare uno sforzo di sottrarci alla vergogna che ci è stata inculcata crescendo. Possiamo ammettere che non c’è nulla di cui vergognarsi a voler stare vicini ai propri amici, a volersi fare le coccole, perché sappiamo che il sesso è solo uno dei tanti modi in cui si può accedere a quell’intimità emotiva che è cruciale per il benessere psicofisico di noi umani (quando invece ai maschi viene raccontato come l’unico).
Noi possiamo scegliere di non allarmarci se nostro figlio si fa le carezze con un suo compagno di scuola, così come non ci allarmeremmo se li vedessimo abbracciarsi dopo un goal.
E con gesti piccoli come questo, possiamo rifondare il mondo.
Un paio di segnalazioni
Ho visto su Netflix lo show “A man in full” basato sul romanzo di Tom Wolfe, che ha come protagonista uno straordinario Jeff Daniels, nei panni di un miliardario sull’orlo della bancarotta ad Atlanta. È uno show nel quale le dinamiche della mascolinità turbo-capitalista e fallocentrica vengono messe in bella vista, e quindi rivelate nella loro fragilità.
Irene Facheris ha lanciato un podcast che si intitola “Tutti gli uomini” in cui ha intervistato molti uomini facendogli domande come “Qual è stata la prima volta che ti sei accorto di essere un maschio?”
La prima serata a teatro di Maschi del Futuro a Urbino, per il Festival Percorsi, è stata straordinaria. Grazie a chi c’era, e a chi vorrà ospitare questo spettacolo nella sua città (Maschi del Futuro è distribuito da Sava Produzioni Creative). Se vi interessa vedere più immagini e un pezzettino video dallo show, cliccate qui.
Ieri ho partecipato al convegno di innovazione in medicina Forward, ed è stato molto bello. Trasformare le riflessioni che condividiamo qui in conversazioni è quello che ci occorre per smantellare la cultura della violenza una volta per tutte.
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Per voi lo sport è oppure è stato importante? Che rapporto avete sperimentato tra il vostro modo di vivere la vostra maschilità e il calcio? Se vi va, raccontatemelo nei commenti.
A giovedì!
Vuoi perchè nella mia famiglia quando ero piccolo non c'è mai stata una passione per il calcio così manifesta, vuoi perchè non c'è proprio stato quell'indottrinamento padre -> figlio sul calcio, le squadre del cuore etc...ma a me del calcio non è mai fregato quasi nulla. Per bambino cresciuto negli anni '80 tra Maradona e Gullit non essere appassionato di calcio era come essere un parìa. E infatti io per un pò ho finto. Compravo le figurine dei calciatori come gli altri e ci giocavo e le scambiavo, ma solo per l'aspetto sociale che poteva garantirmi. Crescendo ho smesso di fingere. Dal mio punto di vista, aspetto sportivo a parte, il calcio e il tifo mi sembrano un qualcosa di identitario che permette di provare legittimamente determinate emozioni che altrimenti per gli uomini sarebbero poco consone in altri contesti. Mi fa sempre strano vedere qualcuno identificarsi così tanto con una squadra da poter dire "abbiamo vinto\ perso" come se il tifare dal divano di casa propria fosse stato un elemento decisivo. Come vedi non è che lo capisca proprio il calcio e tutto quel che ci gira intorno.
Ho giocato a calcio da sempre, e piangevo quando finivo in panchina o venivo espulso. Ho allenato una squadra di calcio femminile, e piangevo quando facevamo tre passaggi di fila. Sono un papà di due bimbe piccole, e piango quasi sempre quando mi dimostrano il loro affetto senza volere niente in cambio. Sono una soluzione ecosostenibile alla siccità: io piango e non me ne vergogno.