Siamo tutti privilegiati, a turno
Storia della parola “privilegio” e di come siamo arrivati a usarla come una clava
“Sono una bianca privilegiata”.
“È un maschio etero cis privilegiato”.
Perché diciamo queste frasi? Che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di “privilegio”? Qual è l’utilità del concetto di privilegio?
Il concetto di privilegio è molto utile come strumento di indagine sociale, ma può inquinare i pozzi del dialogo civile se viene usato come arma retorica per decidere in modo sbrigativo quali siano le qualità morali della persona (o del gruppo di persone) che abbiamo davanti, e dunque chi meriti di essere ascoltato nella pubblica piazza oppure no.
Oggi, specialmente sui social, c’è una grossa parte della performance progressista che gira intorno al concetto di “privilegio”, ma a chi serve, e come ci siamo arrivati?
Partiamo dalle basi
Il termine 'privilegio' deriva dal latino 'privus' (individuo) e 'lex' (legge), e significa quindi “legge per una persona sola”.
La definizione Treccani di “privilegio”:
Atto che attribuisce a un soggetto o a una categoria di soggetti una posizione più favorevole di quella della generalità degli altri soggetti; tale istituto, già presente nel diritto romano, ebbe amplissima diffusione nel Medioevo.
La parola chiave di questa definizione è la prima: “atto”.
Qui, privilegio non è ancora un concetto astratto o relazionale: è un atto concreto, cioè un provvedimento deliberato. Esiste un’autorità che concede e un beneficiario che riceve. Il vantaggio non è casuale né invisibile, ma istituito formalmente — scritto, sigillato, riconosciuto. In un contesto storico in cui il principio di uguaglianza non era ritenuto centrale, infatti, l’idea di fondo era che la norma valesse per tutti, ma che alcuni potessero essere sottratti ad essa grazie a un favore del potere.
Il privilegio, quindi, non era un abuso occasionale, ma una pratica ordinaria della giustizia premoderna. Nel Medioevo, il privilegio è uno strumento di governo: un modo per creare gerarchie, alleanze e dipendenze. Monaci, mercanti, città, ordini religiosi ricevevano privilegi fiscali o giuridici che fondavano la loro posizione nella società.
Di fatto, il privilegio teneva in piedi il sistema feudale: la società era pensata come una rete di eccezioni, e le gerarchie sociali si strutturavano intorno a queste eccezioni.
Con l’avvento dell’età moderna, e soprattutto con la nascita delle democrazie liberali, l’idea di privilegio subisce un rovesciamento radicale.
Le rivoluzioni del Settecento — quella americana e quella francese in particolare — si fondano su un principio così rivoluzionario da essere ancora oggi difficile da comprendere nella grandezza della sua ambizione: che tutti gli uomini nascono uguali. In questo contesto, il privilegio, che per secoli era stato una prerogativa legittima, diventa il nemico da abbattere.
È un passaggio cruciale: si passa da un sistema che distribuiva favori espliciti ai pochi che ne venivano considerati degni (in genere per la famiglia nella quale erano nati) a un ordine che, almeno sulla carta, universalizza i diritti. È un momento straordinario di scarto della coscienza umana, ma - come spesso accade - non è uno scarto che arriva fino in fondo. Quella universalizzazione riguarda infatti solo coloro che venivano considerati soggetti giuridici all’epoca, e dunque soltanto gli uomini bianchi.
Ci sono voluti secoli di battaglie per i diritti civili e lotte femministe per smascherare questa contraddizione e portare il sogno dell’uguaglianza a un livello di radicalità che nel Settecento sembrava inimmaginabile.
Da qui discende anche la carica emotiva che la parola “privilegio” porta con sé oggi quando viene usata lungo l’asse del genere e del colore della pelle: ciò che per gli uomini bianchi è stato a lungo presentato e vissuto come diritto naturale, per le persone nere e le donne è stato a lungo — e in parte è ancora — un privilegio negato.
Il lavoro di Peggy McIntosh
Negli Stati Uniti degli anni Ottanta, mentre le università bianche celebravano l’inclusione come una conquista ormai compiuta, il paese viveva una nuova stagione di tensioni razziali e sociali. L’era Reagan aveva riportato in auge il mito del merito individuale e l’illusione di una società “color-blind”, dove tutti partivano dalle stesse condizioni e chi restava indietro lo faceva per mancanza di volontà. Ma la realtà era un’altra: le disuguaglianze non erano sparite, si erano solo fatte più sottili, più difficili da nominare. Nel frattempo, le femministe afroamericane mettevano in discussione il movimento bianco, accusandolo di parlare di uguaglianza ignorando le differenze di razza e di classe che continuavano a attraversare anche le lotte delle donne. È dentro questa frattura che Peggy McIntosh, docente bianca al Wellesley College, inizia a interrogarsi sul significato di privilegio.
Nel 1988 pubblica un breve saggio, White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack, in cui introduce un’idea la cui forza ha un impatto sui nostri dibattiti ancora oggi.
Per McIntosh, il privilegio non è più un titolo o un favore, ma uno zaino invisibile pieno di vantaggi quotidiani che la società assegna automaticamente a chi appartiene a determinati gruppi — persone bianche, persone di sesso maschile, eterosessuali — senza che ne sia consapevole.
Peggy McIntosh, che è bianca, si rende conto, per esempio, del privilegio di entrare in un negozio e non essere seguita da qualcuno che pensa che voglia rubare. O di sentirsi rappresentata negli show che vede in tv. Si rende conto dell’errore che farebbe se desse per scontato che tutti hanno accesso alla stessa esperienza, semplicemente basandosi su ciò che la vita è per lei.
McIntosh elabora un metodo che invita i suoi studenti a “decentrarsi”, cioè a non presumere che la propria prospettiva sul mondo sia “neutra”, e a praticare un ascolto radicale. Quello che propone non è un esercizio morale, ma un metodo di indagine del mondo che ha l’obiettivo di vedere (e modificare) quelle strutture culturali, economiche, sociali, che impediscono all’ideale dell’uguaglianza di compiersi.
McIntosh non distribuisce colpe, ma invita i suoi studenti a compiere un atto di immaginazione politica, rivelando come il potere spesso si travesta da neutralità, perché difendere la neutralità di un sistema è il modo più efficace per proteggerlo dai cambiamenti.
Il privilegio oggi
Con il tempo, quel concetto nato nei campus femministi americani inizia a circolare ben oltre il mondo accademico.
Negli anni Duemila, “privilegio” diventa parola chiave nei programmi di diversity training aziendale, nelle campagne di sensibilizzazione e nelle pratiche di inclusione.
Riconoscere il proprio privilegio smette di essere un gesto di ricerca interiore e diventa una formula pubblica di legittimazione morale.
Dire “sono consapevole del mio privilegio” serve sempre meno a decentrarsi e sempre più a mostrarsi consapevoli, cioè meritevoli di parlare.
Con l’avvento dei social network, questo slittamento si accelera.
Il linguaggio di McIntosh — che nasceva per smascherare la finzione di neutralità del potere — viene risucchiato nella logica della visibilità.
Il privilegio non è più qualcosa da analizzare, ma da dichiarare.
Frasi come “parlo da donna bianca” o “so di essere un maschio etero privilegiato” non aprono necessariamente una riflessione, ma segnano una posizione nel campo morale del dibattito.
La consapevolezza si trasforma in postura, la riflessione in performance.
Il paradosso è che un metodo nato per “decentrarsi” e prendere in considerazione quanto alcune delle nostre caratteristiche influenzino la percezione che abbiamo del mondo, oggi viene usato per negare qualsiasi prospettiva non collimi millimetricamente con la nostra.
Un concetto pensato per illuminare le strutture di potere finisce per alimentare nuove gerarchie simboliche: chi riconosce il proprio privilegio appare virtuoso, chi non lo fa è sospetto; chi appartiene al gruppo “privilegiato” deve giustificarsi, chi appartiene al gruppo “svantaggiato” deve rappresentarlo.
È in questo passaggio che il privilegio smette di essere una lente da adottare per essere più aperti all’ascolto e al lavoro per l’uguaglianza, e diventa una clava.
La vita umana è un intreccio di caratteristiche e circostanze straordinariamente complesso. Ognuno di noi vive moltissime situazioni ogni giorno e, a seconda dei contesti in cui ci muoviamo, la nostra relazione di potere con chi ci sta intorno cambia.
Sembra che per gli uomini sia più difficile rendersi conto dei privilegi di cui godono, sia perché ne hanno goduto per più a lungo, sia perché non hanno avuto il privilegio di una educazione all’introspezione che è necessaria per fare questo tipo di lavoro interiore, e che invece - fino ad ora - è stata riservata soprattutto alle donne.
Ma è difficile anche perché in molti discorsi femministi da social è passata l’idea che chi è privilegiato lo è a 360 gradi. E questo, molto semplicemente, non è mai vero. Il privilegio è sempre contestuale, e rendersene conto è importantissimo per diventare agenti di cambiamento.
Per esempio, io sono una donna queer e lesbica. Mi capita di ricevere spallate per strada o insulti omofobi. Non godo degli stessi diritti di una donna eterosessuale. Eppure, nel contesto di questo progetto, la mia identità queer è un privilegio: sono cresciuta bambina, identificandomi con i personaggi maschili delle narrazioni intorno a me, e questa duplice prospettiva mi ha dato la possibilità di analizzare i temi di cui mi occupo da una prospettiva originale.
Sono lesbica, e non godo degli stessi diritti di una donna eterosessuale, ma ho dei genitori straordinari la cui fiducia mi ha dato la possibilità di creare una carriera che rispondesse ai miei talenti e desideri e non alle loro paure o al bisogno della loro approvazione. Considero questo un enorme privilegio, perché vedo intorno a me tantissimi uomini che passano la vita intera in dialogo con le insicurezze dei propri genitori.
Allora, vi faccio una domanda da un milione di dollari: se il mio compagno ha uno stipendio maggiore del mio pur avendo un titolo di studio minore e quindi senz’altro godrà di un privilegio economico rispetto a me, ma ha avuto un padre padrone che gli ha imposto il lavoro che sta facendo… c’è un lato oscuro del suo privilegio?
Non si tratta di dire “poverino” o di giustificare eventuali comportamenti tossici, ma di restituire sfumature a una conversazione che è nata proprio per superare l’approccio buoni/cattivi che lascia sempre (sempre) il tempo che trova.
Ma noi invece questo tempo lo vogliamo cambiare!
Che tu sia un uomo o una donna o una persona non binaria, essere consapevoli dei privilegi visibili e invisibili di cui godi, momento per momento, può aiutarti a leggere la tua vita in relazione agli altri in modo più onesto, a individuare quali sono i momenti in cui hai il potere di fare qualcosa, e può aiutarti anche a scoprire che ci sono risorse con le quali sei nato che puoi mettere a servizio degli altri.
Usare invece il concetto di privilegio per prendere a bastonate chi ci sta antipatico, invece, è un modo perfetto per continuare a centrare la nostra esperienza, e a non farci domande, è un modo perfetto per esimerci dal difficile e preziosissimo lavoro sull’ascolto, che è fondamentale se ci sta davvero a cuore il lavoro per l’uguaglianza.
Il concetto è sempre lo stesso: quando il nostro desiderio è quello di dominare gli altri, di sentirci superiori, non importa se lo facciamo con i soldi, la cultura, il potere politico o la performance della nostra rettitudine morale.
Le crepe nel patriarcato si aprono quando impariamo a riconoscere e a mettere da parte (tutte le volte che possiamo) il nostro desiderio di dominio, e portiamo invece al centro il tentativo di comprendere, l’ascolto, la compassione, la capacità di metterci in discussione.
Il privilegio non è una sentenza, è una responsabilità.
Non serve per stabilire chi ha ragione, ma per capire chi in ogni dato momento ha voce, chi può usarla, e in che modo può usarla per aprire spazio agli altri.
Per oggi è tutto.
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Mi sento fortunato nel far parte di questa newsletter
Sono d'accordissimo. Come al solito, mettere in discussione sè stessi è molto più difficile che mettere in discussione gli altri.
Peccato peroʻ che questa sia l'unica vera level del cambiamento e del miglioramento. Altrimenti tutto si riduce nel puntare il dito contro gli altri senza mai chiedersi come noi contribuiamo, in prima persona, al mondo in cui viviamo. Il che equivale a sentirsi virtuosi a vuoto (se non a sproposito). E a lasciare che tutto resti com'è.