La flotilla, Jane Goodall e il potere di buttarsi anima e corpo nel mondo
Non è il post polemico che vi aspettate che sia, vi avviso.
C’è un tipo di intimità molto maschile che è quella della lotta, degli sport in cui si suda e si puzza e ci si stringe, e ci si schizza, talvolta perfino di sangue. È una specie di soddisfazione che ho visto nei maschi quando giocano con altri maschi, è come una gioia profonda, che ha un suo grado di purezza infantile, di condividere lo schifo che i nostri corpi sono in grado di produrre.
A differenza dei corpi femminili, che sono stati idealizzati, demonizzati, regolati, che hanno dovuto sottrarsi al flusso della vita per dimostrare di esserne degni, i corpi maschili sono stati lasciati liberi. E la vita dunque ci fluisce dentro con una forza scomposta che mi cattura.
Ci ho pensato molto in questi giorni, ascoltando un episodio del podcast americano “Talk Easy” in cui il conduttore, Sam Fregoso, intervista lo scrittore Ocean Vuong. Di origini vietnamite, figlio di immigrati con pochissimi mezzi, Vuong racconta che il successo del suo primo libro - Brevemente Risplendiamo sulla Terra - gli ha permesso di avere accesso ad ambienti che prima non aveva mai frequentato, insomma, di vedere l’interno delle case di persone molto, molto ricche.
“Non ci sono segni dei detriti che produce il corpo umano in queste case,” dice Vuong. Non ci sono tracce del disordine che la vita crea nel suo svolgersi, non ci sono barattoli di vitamine sul piano della cucina, non ci sono scope in giro, il bagno è in fondo a lunghi corridoi. Tutto ciò che riguarda le funzioni del corpo è stato rimosso da questi spazi, che profumano, sono sempre puliti, ordinati, minimal.
Nel seguire la flotilla, non so quante volte mi sono ritrovata a immaginare che odore avessero le persone su queste imbarcazioni. Ho pensato al fatto che magari ci saranno stati litigi o insofferenze per i turni delle pulizie a bordo, ho pensato a quanto tira il sale sulla faccia, a chissà che cosa avranno mangiato, come si saranno organizzati per cucinare. Ho pensato a questi aspetti più ancora che al pericolo fisico che gli attivisti hanno scelto di correre mettendo i propri corpi in questo gesto così straordinariamente politico, e sensato nel momento storico che stiamo vivendo.
Un momento storico in cui abbiamo costantemente la tentazione di sottrarre i nostri corpi non solo alle battaglie per quello in cui crediamo, ma perfino alla vita quotidiana. Perché i nostri corpi sono pieni di contraddizioni, perché generano detriti, odori molesti, perché fanno male, perché si stancano, perché sono inevitabilmente imperfetti.
Gli attivisti della Flotilla mi hanno conquistato perché hanno scelto di rimettere i corpi al centro del discorso politico, in un momento storico in cui i cadaveri, piccoli o grandi che siano, subiscono ogni giorno un tentativo di astrazione. Scegliendo di essere presenti col proprio corpo alla battaglia che hanno scelto di combattere, gli attivisti della flotilla hanno invitato noi a fare lo stesso. Ci hanno invitati a scendere per strada, e a fare pressione sui nostri governi per mettere fine a questo massacro, ma io credo che l’invito che quel gesto ci rivolge vada molto oltre.
Credo che non riguardi solo il genocidio del popolo palestinese, ma che riguardi il lavoro dentro cui ognuno di noi sceglie di stare ogni giorno. Che riguardi gli spazi che i nostri corpi attraversano, i gesti che le nostre mani possono fare in presenza di altri esseri umani dei quali sopportare l’odore, il volume della voce troppo alto o troppo basso, il rumore che altre bocche fanno quando masticano. Che riguardi, insomma, la scelta di rimanere in relazione all’altro, agli altri, anche quando è difficile, o scomodo.
Jane Goodall, la straordinaria primatologa inglese che ha rivoluzionato la nostra comprensione degli scimpanzè, e che è scomparsa a 91 anni questa notte, è stata un esempio straordinario di questa capacità di relazione. Il suo approccio allo studio degli animali, della natura, non è mai stato l’approccio di chi osserva la realtà con il distacco dello studioso che è “per sua natura” superiore a ciò che sta osservando.
Goodall si è immersa nella relazione con le sue straordinarie capacità intellettuali, certo, ma anche col suo corpo. E questo ha rivoluzionato il suo e il nostro sguardo sui pezzi di mondo che ha toccato.
Se vi va di ascoltare quella che credo sia una delle sue ultime se non l’ultima intervista, la trovate sul Wall Street Journal. È breve, e straordinaria.
Credo che i social media, e che l’attivismo sui social ci abbia dato l’impressione di poter igienizzare la nostra vita insieme. Credo che abbia spinto molti di noi a credere che i nostri corpi non sono poi così necessari per cambiare il mondo. Che bastano le nostre opinioni, l’efficacia dei nostri argomenti.
Non sono solo i social però. L’idea che disincarnare la nostra conoscenza del mondo potesse renderla più pura è nata molto prima, ed è anzi una delle pietre angolari del patriarcato. È un’idea alla quale si sono attaccate alcune tradizioni religiose, ma anche tutto un filone del positivismo.
Eppure, il versetto forse più bello e potente di tutto il vangelo (almeno per me, si intende) è “e il verbo si è fatto carne”. L’ho sempre trovato di una profondità incredibile. Perché il verbo, che è eterno, dovrebbe scegliere di farsi carne, quando la carne gocciola, puzza, muore, marcisce? Perché senza la carne, non ha la possibilità di abitare il mondo, di vivere.
La flotilla è, per quanto mi riguarda, una delle più straordinarie iniziative politiche che io abbia testimoniato in questi 42 anni di vita, paragonabile per me all’omino col sacchetto della spesa davanti al carro armato in piazza Tien An Men, o come il rifiuto di alzarsi di Rosa Parks. Non perché chi c’è a bordo sia un eroe, ma perché ci ricorda - in questo momento storico in cui tutto sembra così disincarnato - il valore della lotta politica condotta non sugli schermi, ma nei posti che i nostri corpi riescono ad abitare.
C’è una ragione per cui si usa l’espressione “buttarsi anima e corpo” in un progetto.
Non dobbiamo buttarci tutti sullo stesso progetto. Ma dobbiamo imparare tutti a mettere anima e corpo nel lavoro che abbiamo davanti a noi. Ciascuno il suo.
Davanti a me, c’è questo.
C’è scrivervi a mezzanotte, con la schiena un po’ dolente, da un hotel vicino alla stazione di Milano dopo essere tornata ieri dall’Uruguay, perché domani alla Cattolica presentiamo con la Fondazione Libellula i risultati di un sondaggio importante per la lotta alla violenza, e domani pomeriggio c’è un incontro sulla manosfera al Circolo dei Lettori di Torino.
Davanti a ciascuno di voi ci sarà qualcos’altro.
La lezione che state preparando per la vostra classe.
Quello che vi siete messi a leggere per provare ad aiutare più efficacemente un vostro paziente.
L’organizzazione o la partecipazione a una marcia, o il tentativo di ricomporre una lite tra condomini.
Anche se potrebbe sembrare il contrario: non c’è una di queste cose che sia più importante dell’altra.
Quello che cambia il mondo è la nostra determinazione nel buttarci anima e corpo nel lavoro che c’è davanti a noi. Facciamolo come se fossimo dei maschi adolescenti questo lavoro. Ridendo soddisfatti invece che vergognandoci di condividere sudore, sangue, saliva, e tutte le straordinarie imperfezioni tramite le quali possiamo ricordarci che sulla Terra, pur brevemente, splendiamo.
Se siete a Torino, ci vediamo oggi pomeriggio al Circolo dei Lettori.
Se siete a Roma, ci vediamo il 10 Ottobre al Roma Europa Festival.
Altrimenti, ci vediamo giovedì, sempre qui!
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