I danni della politica performativa
Quando usiamo le nostre posizioni politiche per dare spettacolo, la gente si fa male.
Se c’è una cosa che i social media hanno cambiato più di ogni altra, è il nostro rapporto con la politica e i politici. C’è stato un tempo in cui era considerato maleducato parlare di politica se si era a cena con degli sconosciuti, pensate!
L’idea era che non potevamo mai essere certi di cosa pensasse qualcun altro su certi temi, e non volevamo creare tensioni o mettere nessuno a disagio.
Oggi, faccio fatica ad andare a cena con qualcuno senza sapere esattamente cosa pensa, politicamente parlando. Conosco nei minimi dettagli le posizioni della maggior parte delle persone che frequento (non solo gli amici stretti, ma conoscenti, vicini, amici di conoscenti…). E devo ammettere con vergogna che, se so che qualcuno la pensa diversamente da me su qualcosa che considero importante, certe volte mi viene da parlare proprio di quell’argomento. Capita anche a voi?
Mi sono resa conto che, in qualche modo, ho imparato a considerare l’evitare un conflitto politico quasi come una forma di debolezza morale: mi sono convinta che affrontare conflitti non necessari con semi-sconosciuti faccia di me una cittadina migliore, e questo vale per le persone che incontro dal vivo, ma anche e soprattutto per quelle con le quali mi capita di interagire online.
Il problema è che mi sono resa conto che questo atteggiamento mi spinge a frequentare quasi unicamente gente che la pensa come me, e che questo è un problema per la democrazia.
Con la diffusione dei social media, abbiamo iniziato a considerare i nostri feed come un certificato di integrità morale. Ogni giorno allestiamo con attenzione una vetrina di opinioni non richieste, nel tentativo di segnalare la nostra virtù da un lato e sentirci parte di qualcosa dall’altro.
Siamo stati noi, i cittadini, ad avviare questo processo: i politici ci hanno solo seguito. Nel tentativo di sembrare aggiornati e connessi con il presente, hanno iniziato a investire cifre enormi per ampliare la loro presenza online, finendo per alimentare un circo i cui limiti sono evidenti a tutti, ma che non riusciamo a lasciarci alle spalle.
Il fatto è che quando la politica (la nostra e quella degli altri) diventa una performance, le priorità si ribaltano. Non ci chiediamo più: "Quello che sto facendo sta producendo dei risultati?" ma: "Come mi fa apparire quello che sto facendo?"
Nelle questioni di genere, questa dinamica ha raggiunto dei livelli di parossismo. La stragrande maggioranza di chi commenta sulla questione della parità di genere e del superamento della violenza, sembra essere più preoccupat* di segnalare “da che parte sta” che non di spostare in avanti il dibattito.
Sto dalla parte di chi grida “nazifemministe!” o dalla parte di chi dice “maschio bianco etero cis” come se fosse una malattia? Sto dalla parte delle TERF (le femministe che odiano le persone trans) oppure dalla parte di chi i maschi li ritiene tollerabili solo se sono trans?
Esprimere odio per una categoria di persone è una delle strategie più diffuse con le quali segnaliamo appartenenza al gruppo rivale. Più performiamo pubblicamente il nostro odio verso i fascisti e più possiamo rivendicare il nostro essere di sinistra. Più performiamo il nostro odio verso gli uomini, e più stiamo dalla parte di tutte le donne. Più performiamo il nostro odio per le donne trans e più possiamo rivendicare quanto sia ancora più “pura” la nostra difesa delle donne… eccetera eccetera.
Tutti cadiamo in questo meccanismo.
La politica performativa si compone di due inestricabili metà: da una parte la performance dell’odio e dall’altra la performance dell’alleanza. I social media e la vetrina che dobbiamo allestire ogni giorno ci fanno sentire l’obbligo morale di esprimerci su qualsiasi argomento, e hanno fatto passare l’assurda convinzione che chi non si espone su uno specifico argomento si renda complice di crimini e ingiustizie.
Ma è davvero così? Qual è il prezzo che stiamo pagando come società per aver interiorizzato questo sistema di valori?
Esporci così tanto su così tanti temi ogni giorno di fatto riduce la nostra possibilità di scoprire i modi in cui gli altri sono simili a noi, magari non per affiliazione politica, ma per interessi, o per stile di vita e valori. Focalizziamo tutta la nostra attenzione su ciò che ci divide invece che su ciò che ci unisce.
Stiamo diventando sempre meno abituati a gestire la frustrazione che il vivere con gli altri comporta, stiamo diventando meno capaci di dialogare con chi la pensa diversamente da noi, e stiamo sempre di più spingendo i nostri politici ad essere come quei fantocci che si agitano davanti agli autolavaggi: devono andare dove soffia il vento e farsi notare.
Vogliamo che si facciano vedere e che ci facciano vedere quanto sono puri, quanto non scendono a compromessi. Non gli chiediamo che portino a casa dei risultati, e soprattutto non siamo alla ricerca di leader, di persone che ci portino dove neanche sappiamo di voler andare.
Come facciamo a stupirci poi che la democrazia appaia sempre più stanca e immobile, se queste sono le premesse?
Se la democrazia è partecipazione, come può la qualità della nostra partecipazione non influire sulla qualità delle nostre democrazie?
La vera alternativa se vogliamo costruire un mondo che superi le logiche della dominazione e della violenza è un lavoro profondo, relazionale, spesso scomodo e frustrante – in cui l’ascolto conta più dell’emissione del segnale, la presenza conta più della visibilità, e la dignità dell’altro conta più del nostro bisogno di avere sempre ragione.
Questo vale in modo particolare per la crisi che riguarda i ragazzi e per il futuro della parità di genere. Se vogliamo ripensare la mascolinità, dobbiamo abbandonare la logica della performance:
Il dominio nasce dalla performance.
La dignità nasce dalla presenza.
Il Partito Democratico americano ha speso, pare, 20 milioni di dollari per “capire gli elettori maschi”. Ma il problema di questi tentativi a metà è che non arrivano mai alla radice: i Democratici cercano soluzioni, quando dovrebbero prima chiedersi qual è davvero il problema. D’altra parte, ascoltare è molto più difficile di quanto sembri.
Negli ultimi dieci anni, un certo tipo di femminismo performativo ha dominato i feed dei progressisti. Un femminismo più interessato all’immagine che agli effetti reali. Che mette gli slogan prima della sostanza e considera il dolore maschile una minaccia o una barzelletta.
È nato da buone intenzioni, e ha anche sortito degli effetti positivi, ma troppo spesso ha sacrificato l’empatia in nome della superiorità morale. Ha costruito consenso posizionandosi contro gli uomini, invece di lavorare con loro per smantellare i sistemi che danneggiano tuttə.
Invece di chiederci come i ragazzi imparino a reprimere le emozioni, li ridicolizziamo per non riuscire a esprimersi.
Invece di chiederci perché tanti uomini siano soli e ansiosi, condividiamo meme virali sulla “mascolinità fragile”.
Invece di esplorare come il patriarcato trasformi gli uomini in strumenti di produttività a scapito del loro benessere, diamo per scontato che il privilegio maschile renda i loro problemi irrilevanti.
Questo atteggiamento performativo può farci sentire dalla parte giusta, ma non sta costruendo il mondo di cui abbiamo bisogno. Anzi, sta alimentando il contraccolpo in cui siamo immersi. Ha creato un vuoto di significato, empatia e direzione che le destre reazionarie stanno riempiendo con entusiasmo.
Il femminismo reale – quello che libera – è sempre stato una lotta per la libertà di tuttə. Serve a costruire un mondo in cui donne, uomini e chiunque si trovi al di là del binarismo possa essere interamente se stess*. E quel lavoro non può proseguire se continuiamo a ignorare il modo in cui anche gli uomini sono danneggiati dagli stessi sistemi che vogliamo abbattere.
Il lavoro che serve davvero non è glamour. È difficile metterlo in un reel. Non ci fa sentire moralmente superiori. Richiede di saper stare nel disagio dell’altro senza avere fretta di risolverlo. Richiede curiosità al posto della certezza, umiltà invece che posa.
Non ti regala chiarezza morale immediata. Anzi, spesso ti lascia con più dubbi. Ma è lì, proprio lì, che nasce la trasformazione vera: nella tensione tra ciò che sappiamo e ciò che stiamo ancora imparando.
La politica performativa, invece, ci offre l’illusione della sicurezza. Ci fa sentire nel giusto al 100% del tempo. Premia la performance al posto del progresso, la certezza invece della sincerità. E finché resteremo intrappolati in questa dinamica, nessun vero cambiamento sarà possibile – né sul genere, né sul clima, né sulla razza, né sulla democrazia.
Che fare quindi?
Per quanto mi riguarda, sto cercando di impegnarmi a tenere per me più opinioni, e a scegliere con più attenzione su quali temi prendere posizione pubblica.
Sto cercando di impegnarmi a essere un’ascoltatrice migliore, a smettere di agire come se esprimere TUTTE le mie opinioni a ogni piè sospinto potesse cambiare il mondo.
Mi impegno ad ascoltare meglio chi ho di fronte, e a fare più domande per capire come è arrivato a pensare quello che pensa.
Mi impegno a non sprecare energie in discussioni online, e a investirle in conversazioni dal vivo – perché una verità scomoda dei litigi su internet è che ci lasciano svuotati, e impauriti all’idea di connetterci nella realtà.
Spero che, se smettiamo di trattare la politica come un palcoscenico, anche i politici smetteranno di sentirsi incentivati a comportarsi come pagliacci.
Non nego che sia difficile vedere cose dolorose e sentirsi impotenti. Ma questa è la realtà. La grande maggioranza di noi, individualmente, non avrà mai il potere di fermare una guerra o impedire a un sociopatico di essere eletto presidente.
Smettiamola di agire come se tutto il peso del mondo fosse sulle nostre spalle.
Forse, se lo facessimo, scopriremmo che c’è molto che possiamo fare per i nostri vicini, per le nostre famiglie, per uno sconosciuto che incontriamo per strada.
C’è molto che possiamo fare se lasciamo fuori dalla porta la nostra superiorità morale, e dedichiamo tempo ed energia al compito – frustrante, stancante e sorprendentemente appagante – di scoprire chi ci sta di fronte. Di trovare modi per convivere bene, anche quando i nostri vicini non la pensano come noi.
Il modo in cui scegliamo di stare accanto agli altri conta più di quello che pubblichiamo su Instagram.
Non siamo spettatori.
Siamo partecipanti.
Io sto cercando di smettere di recitare, e iniziare a giocare sul serio.
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A giovedì.
Mi è piaciuto molto questo post, perché tocca anche me da vicino. Prendiamo il caso Gaza: io ovviamente sono propal e altrettanto ovviamente non mi sento antisemita a criticare il governo israeliano (che non sono "tutti gli israeliani", esattamente come Hamas non è "tutti i palestinesi"). Cerco di studiare la questione da più punti di vista di imparare cose e di lasciare spazio sì all'indignazione, ma in un contesto di studio delle fonti. Eppure spesso mi capita di pensare "forse dovrei condividere più video del genocidio? Poi mi dico anche "no", nel senso che non sposta nulla se io dico la mia opinione, sposta di più seguire le fonti dirette. Però è una trappola in cui spesso finisco impigliato. Quindi cerco di evitare. Illuminante invece la questione del femminismo performativo e di quanta reazione negativa ha causato nel maschio medio americano. Secondo me hai proprio centrato il punto, grazie!
Le tue newsletter sono sempre illuminanti, grazie ❤️