Vi scrivo dal deserto di Atacama, dove sto prendendo qualche giorno di riposo dal tour di Maschi del Futuro in Sud America. In queste settimane, ve ne sarete accorti, la newsletter arriva con meno prevedibilità, perché sto lasciando che i pensieri si depositino con una scansione diversa da quella solita. Avrei potuto programmare dei post e farli uscire con la solita cadenza, ma ho sentito il bisogno di portarvi in questo viaggio, e ho voluto mantenere una spontaneità di quello che avrei sentito l’urgenza di scrivere da qui.
Sto seguendo la storia dell’assassinio di Charlie Kirk, e ci sarà modo di parlarne. Ma un pezzo grosso di questo lavoro viene anche dall’attesa, per fare in modo che ciò che condivido con voi non nasca dalla paura di non sfruttare al massimo i cicli di oltraggio e attenzione creati dagli algoritmi social, ma dal coraggio di aspettare di avere qualcosa da dire, e di tacere quando mi sembra che le mie parole non aggiungano nulla.
Questo episodio e forse anche il successivo della newsletter saranno dunque un poco diversi dal solito. Spero che la cosa non vi dispiaccia troppo.
Vi scrivo dal deserto
Sono arrivata a Santiago del Cile la sera del 9 settembre, e ho trascorso tutta la giornata del 10 a fare interviste, una dietro l’altra con diverse testate cilene da una sala dell’hotel che l’editore di Cuentos del Espacio para Hombres del Mañana (Planeta) aveva prenotato. Il 12 poi ho preso un aereo prestissimo per volare da Santiago ad Antofagasta, nel nord del Paese. All’aeroporto mi aspettava un piccolo bus bianco e impolverato, con un cartello dietro il parabrezza che diceva: ESO - European Southern Observatory.
L’ESO, è una organizzazione finanziata da 16 Paesi europei più UK, e Cile e Australia come partner strategici. È l’organizzazione che costruisce e gestisce i telescopi più potenti del mondo. Si tratta di astronomi, fisici, ingegneri che hanno scelto di dedicare la propria vita a generare strumenti e idee che possano rispondere a domande come: com’è arrivata davvero la vita sulla Terra? Siamo soli nell’universo? Come si è creato davvero l’universo?
Ero su quell’aereo perché l’ESO mi aveva invitata a fare un discorso e a presentare il lavoro che sto facendo qui a Maschi del Futuro nel loro osservatorio di punta, quello di Paranal, nel nord del Cile appunto.
L’osservatorio si trova in un luogo remoto, perché ovviamente il buio più assoluto e l’assenza di inquinamento sono fondamentali per garantire la migliore qualità possibile delle osservazioni. Questo significa che chi lavora a Paranal deve viverci mentre ci lavora, perché non è un posto dal quale si può fare avanti e indietro.
Dopo 3 ore di viaggio nel deserto, incontriamo un cartello che dice: da questo punto in poi usarle solo le luci di posizione. I fari delle auto, intorno all’osservatorio, sono vietati. Attraversiamo un cancello, il bus ci lascia davanti ad una passerella di cemento, che sembra finire contro una collina bassa. In fondo a quella striscia di cemento, nel dorso della collina, c’è una porta.
“Donde vamos?” Chiedo. “La puerta” mi risponde lui indicandomi quella porta.
Cammino incerta, seguendo le altre tre persone che erano a bordo che erano già sparite velocemente lì dentro. Apro quella porta, c’è un tappeto, una spazzola per pulire le suole delle scarpe, e un’altra porta, uguale.
Apro la seconda porta.
Lo spettacolo che mi si para davanti è quello che potreste immaginare, se doveste pensare di visitare una colonia umana che si è installata su un altro pianeta.
Un edificio immenso, coperto da una cupola traslucida bianca che sembra una gigantesca lampada dalla quale questo edificio profondo prende luce.
Profondo perché siamo entrate da quello che risulta essere “il piano di sopra”. Nel fondo dell’ambiente che vediamo ci sono una piscina, nel dorso della collina che scende verso quella piscina, piante, al coperto. Banani per lo più.
Nel piano di mezzo, quello al quale si arriva lasciandosi scivolare per una rampa di cemento lucido, rossastro come tutti i muri e i pavimenti e i muri di questo posto, dello stesso colore della terra di fuori, ci sono divani, e alcuni umani, di cui una mi fa segno con la mano e dice “sono arrivate”.
È Eleonora Sani. Deputy Head of Paranal Science Operations. Una delle più importanti astronome del mondo, e una delle pochissime donne in un ruolo dirigenziale in una istituzione scientifica di questo livello. Senese, è in Cile con Eso dal 2015. Ci siamo parlate in videochiamata quando lei e Matteo Pozzobon, veneziano, ingegnere meccanico che sta lavorando all’Extra Large Telescope (ne parleremo) mi hanno spiegato perché volevano che andassi a presentare la mia ricerca lì.
È stato lui a mandarmi un messaggio su Instagram dopo aver ascoltato la mia intervista da Francesco Costa, di cui Matteo ha fatto circolare in Eso una trascrizione.
Gli italiani in questo manipolo di pionieri sono ben rappresentati (soprattutto i veneti!), le donne… meno! Non è una caratteristica dell’Eso. Un report dell’Unesco del 2024 dice che le donne occupano il 22% dei lavori nelle carriere STEM, nei Paesi del G20. Le ragioni per questo sono tante, e note. Sono stati accertati molti bias nelle valutazioni delle ricerche (il lavoro delle donne viene valutato come meno importante), e più si sale di livello più si assottigliano i numeri di donne alle quali vengono affidati ruoli di responsabilità nelle istituzioni scientifiche, questo crea una mancanza di modelli, e una serie di bias per l’avanzamento in carriera di altre donne etc.
Più si va avanti però, più sono manifesti i benefici di una comunità scientifica che rifletta la varietà degli umani. Il progresso scientifico si nutre di innovazione, e l’innovazione viene dall’incontro, e - a volte - dalla collisione di prospettive diverse, di modi diversi di guardare lo stesso fenomeno, lo stesso processo.
Essendo una istituzione di eccellenza, l’Eso si pone il problema di attrarre semplicemente i migliori talenti disponibili su questo pianeta, a prescindere dal genere, ma sa che - per farlo - le buone intenzioni non sono sufficienti.
Il bus che ci ha portato all’osservatorio è arrivato con un’ora di ritardo e quindi abbiamo appena il tempo di mangiare un boccone alla mensa, con Luca Sbordone, un altro degli astronomi italiani (e veneti) che lavorano qui, che devo infilarmi una camicia e prepararmi per la presentazione.
In una saletta della residenza ci sono una ventina di scienziati e ingegneri, e ce ne sono una cinquantina collegati dalle altre sedi ESO in giro per il mondo.
Oltre al viaggio nel maschile e alla presentazione della ricerca che condivido con voi ogni settimana, gli ho raccontato (come non avrei potuto?) della storia incredibile di Margaret Hamilton, che programmò il software per la navigazione di Apollo 8. Era l’epoca in cui il codice si scriveva bucando dei fogli di carta, che poi venivano messi in una macchina che eseguiva i comandi. Hamilton aveva avuto da pochi anni una bambina, Lauren, e la portava con sé al lavoro, lasciandola giocare sul pavimento dell’ufficio in cui lei scriveva febbrilmente il codice che potesse consentire ai primi umani di mettere piede sulla luna.
Aveva un simulatore in ufficio, che riproduceva la console della navicella, e faceva le sue prove a testa in giù, sdraiata, per provare a far lavorare la macchina nello stesso modo in cui avrebbero dovuto farla lavorare gli astronauti in assenza di gravità.
Lauren ovviamente guardava sua mamma divertita. E anche lei voleva giocare con la console come sua madre. Così, un giorno, mentre Margaret stava facendo un test, Lauren azionò una leva, che serviva a far partire una sequenza di pre-lancio.
Il problema era che la bambina schiacciò quella leva mentre il software stava simulando il volo, quindi il computer entrò in confusione e crashò. (Esiste il passato remoto di crashare? Da oggi sì).
Margaret fu molto felice che la bambina avesse scoperto quel bug e corse a parlarne alla direzione di quel programma del MIT che stava lavorando con la NASA. Le fu risposto che non c’era da preoccuparsi: gli astronauti erano allenati a non fare errori.
Quando Apollo 8 stava rientrando sulla Terra, però, uno degli astronauti fece esattamente l’errore che aveva fatto la bambina, e il computer cancellò tutti i dati di navigazione rendendo impossibile l’atterraggio. Ci vollero 8 ore di lavoro febbrile per riscrivere il codice e consentire agli astronauti di rientrare sani e salvi.
Quando Apollo 11 stava per atterrare sulla luna, il computer iniziò a sputare fuori una serie di errori, ma Margaret Hamilton aveva creato un programma per cui - in fasi critiche del volo - il computer doveva concentrarsi solo sulla missione più importante e ignorare tutto il resto. Questa volta, i suoi superiori l’avevano ascoltata, e quindi il programma funzionò, senza rovinare uno dei momenti più emozionanti della storia dell’umanità, l’allunaggio.
La parte più difficile della diversità e dell’inclusione è tenere a bada le nostre aspettative
Quando si parla di diversità, gli ostacoli maggiori sorgono dal fatto che abbiamo paura che le cose vengano fatte in modo diverso da come le abbiamo sempre fatte. E badate, questo non vale soltanto per i luoghi di lavoro. Vale anche per le faccende di casa, la cura dei bambini… etc. Ci diciamo che vorremmo che ci fossero più donne a fare questo, più uomini a fare quell’altro… ma… e se poi quelle persone “nuove” fanno le cose diversamente da come le abbiamo sempre fatte?
Beh, quello è esattamente il punto.
Creare spazio per gli altri significa accettare che traccino il loro percorso dentro quel compito, dentro quel processo. Che abbiano la possibilità di starci dentro nel loro modo, come Margaret Hamilton con i suoi modi di testare la console della navicella. È questo che è davvero difficile e che richiede un lavoro interiore non indifferente. Ma è anche la cosa che ci rende personalmente più ricchi, più liberi, più in pace.
Dopo il discorso e una vivace sessione di dialogo, Eleonora Sani e alcuni suoi colleghi mi hanno portato a fare un tour dell’osservatorio per vedere i posti dove accade la magia.
A Paranal, ESO ha già 8 telescopi straordinari, ma ne sta costruendo un nono, l’Extra Large Telescopy, che con uno specchio del diametro di 79 metri, sarà il telescopio più potente mai costruito sul nostro Pianeta.
La quantità di intelligenza che sta dietro ogni singolo aspetto di questo progetto è da far girare la testa: dalla costruzione degli specchi sperimentando diverse tecniche per ottenere la massima riflettenza possibile e la curvatura ideale, alla costruzione di oggetti che pesano tonnellate e girano su se stessi per essere calibrati con la massima precisione possibile, senza fare un decibel di rumore.
Vedendo queste macchine straordinarie ruotare, l’unico rumore che si sente è quello dell’acqua che raffredda i macchinari per proteggere la precisione degli strumenti di misurazione.

Le macchine che state vedendo non ci consentono solo di viaggiare nello spazio, ma anche (e forse soprattutto?) di viaggiare nel tempo. Ci permettono di osservare fenomeni avvenuti nell’universo intorno a noi, milioni, miliardi di anni fa.
L’idea è quella di osservare diversi fenomeni in modo da… affettare la linea del tempo, e capire come ci siamo evoluti davvero, come siamo arrivati fin qui, e quindi anche… dove stiamo andando.
“È difficile all’inizio comprendere le scale di grandezza di tutto questo” mi dice Eleonora Sani. Le ho chiesto se per lei, venire a patti con quanto siamo piccoli nell’universo, le ha dato un senso di tristezza e impotenza, o se le ha dato speranza.
“Speranza” mi risponde senza esitare.
Subito prima del tramonto c’è l’apertura dei telescopi. E il tramonto qui è abbastanza speciale.
Dopo il tramonto andiamo a cena, e subito dopo la cena torniamo su, è ora di ripetere la presentazione per gli astronomi e gli ingegneri che fanno il turno di notte. Usciamo dalla residenza futuristica nella quale c’è la mensa e le nostre camere, e questa volta è buio. Buio pesto. Le chiavi delle camere hanno un portachiavi che è una micro torcia che si punta a terra per muoversi intorno e trovare la macchina dentro cui si sale per guidare, a fari spenti, verso il telescopio.
Io sono in piedi dalle 5 del mattino, e col jet lag, ma in qualche modo, riesco a tenere botta! Dopo il talk usciamo sulla terrazza, e sopra le nostre teste c’è la via lattea, il laser, e un silenzio profondo. Penso a quel laser, al lavoro che fa per rimuovere il rumore di fondo dalle osservazioni, l’uso di diversi strumenti così sofisticati per scrutare l’ignoto, per capire come ci siamo arrivati fino a qui…
Penso a tutte le volte che ci sentiamo scoraggiati. Che sentiamo che non potrà mai cambiare nulla, che il mondo è troppo pieno di violenza, di brutture, di ignoranza, di ferocia perfino.
E mi torna in mente il discorso più galvanizzante mai pronunciato sulla ricerca spaziale, che è poi così galvanizzante perché non parla soltanto dello spazio, ma dell’umanità in generale.
Era il 12 Settembre del 1962 quando Kennedy disse: “We chose to go to the moon in this decades and do the other things, not because they are easy, but because they are hard” e cioè “Scegliamo di andare sulla luna in questa decade, e fare tutte le altre cose, non perché sia facile, ma proprio perché è difficile.”
È in questo scrutare, in questo sceglierci le missioni più difficili possibile, quelle intorno alle quali sentiamo di poterci unire per il bene di tutti che realizziamo a pieno la nostra umanità.
È questa scala immensa che invece che farci sentire piccoli piccoli, e impotenti, insignificanti, ci riempie il cuore di speranza.
Alla prossima settimana!
PS: Dalla scorsa settimana, Storie Spaziali per Maschi del Futuro è nella biblioteca dell’osservatorio di Paranal, e nelle scuole elementari in Cile. Che meraviglia, no?
Grazie, i tuoi pensieri sono Luce.
Che straordinaria meraviglia, Fra! E mi hai ricordato un giovane astrofisico con cui condivisi la casa a Firenze, quando ero studentessa. Era stato scelto e invitato proprio lì in Cile all'osservatorio. Chissà se poi ci andò, chissà se magari era tra quelli che ti hanno ascoltato. ❤️