Boots: lo show Netflix che ha fatto arrabbiare il Pentagono
La serie racconta un rito di iniziazione maschile affascinante e doloroso
C’è una serie Netflix uscita il 9 ottobre che per me è una delle migliori dell’anno: Boots.
Il creatore della serie è Andy Parker, ma la serie è un adattamento dal memoir di Greg Cope White uscito nel 2015 e intitolato The Pink Marine. Il libro racconta dell’esperienza dell’autore, un uomo gay, nel bootcamp di addestramento dei Marines nel 1990.
La serie racconta la storia di Cameron Cope (interpretato da Miles Heizer), che è un ragazzo gay di 18 anni che decide di provare a unirsi ai Marines per seguire il suo migliore amico, che a sua volta cerca disperatamente un modo per essere finalmente degno della stima di suo padre.
Cameron a scuola viene bullizzato e non è riuscito a trovare il suo posto nel mondo. Sua madre lo ha costretto a vivere in mille posti diversi, sempre in fuga dai casini che ha combinato, e il suo amico è l’unico legame importante che sente di avere. Si lascia allora convincere da una policy del reclutamento dei marines: se ti arruoli con un amico, non verrete separati.
La storia originale è ambientata negli anni ‘90 e dunque prima ancora che venisse adottata la policy nota come “Don’t ask, don’t tell” (non te lo chiediamo, non dircelo) che, qualche anno dopo, consentiva alle persone omosessuali di servire nelle forze armate, purché non rivelassero la propria omosessualità.
Nel contesto in cui si muovono i nostri personaggi basta essere sospettati di essere gay perché parta un’indagine che può concludersi con la radiazione dal corpo nel quale si serve.
Una performance esasperata della propria maschilità è quindi centrale nella costruzione dell’identità di un marine.
Il bootcamp si rivela essere un vero e proprio percorso iniziatico.
Tutti urlano tantissimo
Mi ha incuriosito moltissimo un aspetto in particolare, che ho scoperto essere vero: dal momento in cui i ragazzi arrivano alla base, quando sono ancora nel bus, gli istruttori iniziano a urlargli addosso. Mi sono chiesta perché.
La prima cosa che le urla fanno è spogliare i ragazzi della loro identità di civili: nel momento in cui l’istruttore urla, aumentano i battiti, sale il livello di cortisolo, e viene inibito il funzionamento della corteccia prefontale (che regola la percezione dell’io e del pensiero razionale). Le urla sono un meccanismo ritualizzato di dissoluzione dell’ego: servono a spezzare il legame con la comodità personale, le opinioni o l’autostima — per poter costruire una nuova identità collettiva: il “Marine.”
D’altra parte i Marines sono guerrieri per eccellenza. Questo addestramento serve per fare la guerra, per diventare macchine capaci di eseguire in modo preciso gli ordini anche quando c’è casino, quando hai paura e ti fischiano le orecchie e hai il cuore in gola.
“KILL” grida tutto il gruppo quando qualcuno ha fatto qualcosa che merita un complimento.
Molti di questi ragazzi sembrano non aver neanche pensato al fatto che diventare un soldato possa voler dire che può capitarti di dover ammazzare qualcuno. C’è chi scopre di avere una mira formidabile e di essere spaventato dai compiti che gli potrebbero essere assegnati.
D’altra parte il ruolo del bootcamp è esattamente questo: l’obiettivo di questo durissimo addestramento è che tu smetta di essere un uomo (qualunque / senza la stima di chi ti sta intorno / senza un futuro / senza una missione) e diventi… un marine. Qualcuno che appartiene a una cosa più grande di sé, che viene guardato con rispetto, e ammirazione, e che sta in una istituzione che si prenderà cura di te.
Smettere di essere uomini qualunque.
E diventare eccezionali.
È questo, in fondo, il mito che la cultura maschile americana — e non solo — mette al centro della formazione degli uomini: l’idea che per essere degno di rispetto tu debba distinguerti, superare gli altri, dominare la paura, il dolore, il nemico.
Che la vulnerabilità sia una debolezza e che la forza, per contare, debba essere riconosciuta pubblicamente.
Ma questa aspirazione all’eccezionalità è una trappola.
Perché se ogni uomo deve dimostrare di essere più degli altri, allora nessuno può permettersi di essere semplicemente sé stesso.
La competizione diventa una condizione esistenziale, e la vergogna — quella di non essere “abbastanza uomo” — diventa la paura che regola tutto.
Per Cameron, però, la sfida è doppia.
Non solo deve imparare a sparare, obbedire, resistere, ma deve anche cancellare la parte di sé che lo renderebbe “meno” agli occhi degli altri: il fatto di essere gay.
In un sistema fondato sull’idea che essere un vero uomo significhi incarnare la virilità perfetta — forte, etero, aggressiva — Cameron non può neanche aspirare a essere “un uomo qualunque.”
Perché nel codice implicito di quel mondo, lui parte già come difettoso, come qualcosa da correggere o nascondere.
È questa la crudeltà del mito dell’eccezionalità maschile: funziona solo se c’è sempre qualcuno considerato “meno uomo” per definizione.
E quel qualcuno diventa il bersaglio su cui gli altri possono misurare la propria forza.
E questa tensione tra desiderio di appartenenza e paura di esclusione attraversa anche gli adulti del racconto. Lo sa bene il Sergente Robert Sullivan, un marine esemplare interpretato magistralmente da Max Parker, che rischia di vedere distrutta la sua carriera per un’investigazione sul suo conto.
Sospendo un attimo l’episodio per dirvi una cosa
Voglio rilanciare il podcast di Maschi del Futuro per venire incontro a tutti quelli che mi hanno detto che ascoltano più volentieri che leggere: per farlo, ho bisogno di prendere una persona che si occupi del montaggio (e di pagarla!). Al momento, questa newsletter ha 372 abbonati a pagamento: se arriviamo a 450 avrò abbastanza risorse per rilanciare il podcast.
Lo scorso episodio è stato letto da 20.000 persone. Tra queste, 20 si sono abbonate (grazie!). Che dite, riusciamo ad aggiungerne altre 20 questa settimana? Dai, cliccate qui.
Riprendiamo le trasmissioni
Boots è stato criticato aspramente dal Pentagono, che lo ha definito “spazzatura woke”, ma ha lasciato interdetto anche il critico del Guardian Stuart Heritage per la ragione opposta, e cioè perché a tratti sembra offrire una rappresentazione eccessivamente entusiastica del percorso di addestramento.
Per me questa ambivalenza della serie è il suo maggior merito: la cultura militare ha offerto a generazioni e generazioni di ragazzi e uomini un senso di appartenenza che in molti non riuscivano a trovare da nessuna altra parte. Ha offerto loro l’idea che non sarebbero mai più stati soli in questo mondo, e che per tutta la vita avrebbero potuto contare sui propri commilitoni, anche se le cose si fossero messe davvero male.
È molto facile alzare gli occhi al cielo quando si vedono dinamiche come quelle raccontate in Boots, ma è molto più interessante interrogarsi a fondo sulle ragioni profonde del fascino che le istituzioni militari esercitano sui maschi e capire i bisogni ai quali rispondono.
Nello stesso tempo, forse lo show avrebbe potuto essere più esplicito nel raccontare che cosa viene chiesto in cambio di questo senso di appartenenza: l’annullamento del sé, l’adeguamento a un copione che ci precede e ci seguirà, che richiede solo che saliamo a bordo e non facciamo domande mentre viviamo una vita che qualcun altro ha scelto per noi.
Quando dico che i maschi hanno bisogno di essere pionieri, intendo esattamente questo: si tratta di scendere da quel vagone e avventurarsi fuori dai binari, senza la certezza del successo, del distintivo, della medaglia, o dell’applauso di nessuno.
Che cosa avete da guadagnarci?
Molto semplicemente, la possibilità di vivere la vostra vita, e non quella che qualcun altro ha scelto per voi.
A giovedì!
Se c’è qualcuno con cui condividete consigli su serie tv, mandategli questo episodio!
Un paio di cosette ancora
Si stanno avvicinando le feste: se avete bambini a cui volete bene, mi raccomando, assicuratevi che abbiano la loro copia di Storie Spaziali per Maschi del Futuro!
Un paio di giorni fa sono stata a SkyTG24 ospite di una giornalista che stimo molto, Monica Peruzzi, e ho parlato del legame tra omofobia e violenza maschile. Se volete recuperare un pezzettino, lo trovate qui.
Per chi è a Milano, sabato mattina mi trovate al Base Milano con Terziario Donna.







