#53 Le politiche per la diversità danneggiano la meritocrazia?
A sinistra si urla: “le aziende stanno rivelando il loro vero volto!” E a destra: “Basta con questa fissazione della diversity, che vincano i migliori!"
Prima di tutto, una bella notizia
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Diversità, inclusione e meritocrazia.
Quando si parla di DEI (diversity, equity, inclusion), o della versione italiana, le “quote rosa”, spesso capita che gli animi si scaldino molto velocemente.
Su questa newsletter, però, noi cerchiamo di non scaldarci - almeno non subito - e di provare a guardare le cose rimanendo lucidi, senza l’urgenza di doverci schierare da una parte o dall’altra.
La critica più frequente alle quote rosa è che compromettano la meritocrazia, introducendo una discriminazione al contrario. Gli oppositori sostengono che un accesso “garantito” possa sminuire il valore dei traguardi raggiunti dalle donne autonomamente. Si ritiene quindi che le quote rosa minino la credibilità e la professionalità femminile.
Se noi esseri umani fossimo esseri puramente razionali, al 100% consapevoli di ogni nostra azione, e con una percezione degli altri che corrisponde in modo esatto e inequivocabile alla realtà, questo argomento non farebbe una piega.
Gli studi sul fatto che questo tipo di umani *non esistano* sono abbondanti.
Le nostre scelte e le nostre percezioni sono influenzate, spesso inconsapevolmente, da fattori biologici, emotivi, culturali e sociali, e la complessità della realtà supera di gran lunga la nostra capacità di coglierla in modo oggettivo e completo. Pertanto, non esiste alcun individuo che agisca esclusivamente secondo logica e percepisca la realtà in modo perfettamente corrispondente a come “realmente” è.
Il patriarcato si fonda sull’idea che ci siano individui che agiscono esclusivamente secondo logica, e che quegli umani siano tendenzialmente… maschi. È così che viene giustificato il predominio maschile, è così che viene giustificata la preminenza maschile nella sfera pubblica: gli uomini apparterrebbero alla sfera pubblica più delle donne perché, a differenza loro, sono esseri puramente razionali (che dunque saprebbero riconoscere il talento anche in un ‘non-uomo’ perché si tratterebbe di una scelta razionale).
Il convincimento di poter agire in modo puramente razionale nasce spesso da un’illusione di controllo e da una limitata consapevolezza dei propri bias cognitivi.
In altre parole, solo chi è incapace di riconoscere la propria vita emotiva e il modo in cui questa influenza le proprie azioni e percezioni che può essere convinto di agire in modo puramente razionale.
Il paradosso è che proprio chi non sa leggere le proprie emozioni ne è controllato maggiormente, perché - di fatto - non è nella posizione di operare una scelta: reagisce a quello che sta provando senza riconoscere la radice dell’impulso ad agire.
Poiché nell’educazione maschile tradizionale essere a contatto con le proprie emozioni è considerato poco virile, non può sorprendere che gli individui che agiscono in modo irrazionale pur convinti di essere razionali al 100% sono in larga parte uomini.
La meritocrazia
Il termine “meritocrazia” deriva dall’unione di due radici:
“merito” (dal latino meritum, “ricompensa”, “ricompensa dovuta”, a sua volta da mereri, “guadagnare”, “meritare”);
“-crazia” (dal greco krátos, “potere”, “autorità”).
Letteralmente, dunque, meritocrazia significa “il potere (o l’autorità) del merito”. La parola ha poi trovato diffusione nella forma inglese meritocracy, introdotta o resa popolare dal sociologo britannico Michael Young nel suo saggio satirico “The Rise of the Meritocracy” (1958)
L’idea della meritocrazia è una meravigliosa astrazione che - messa a confronto con la realtà - incontra due iceberg:
Nella pratica, la realizzazione di una società veramente meritocratica è ostacolata da disuguaglianze strutturali e condizioni di partenza non equivalenti.
Una bambina geniale che nasce in Papua Nuova Guinea e arriva in Europa su un barcone avrà infinite meno chances di dimostrare il suo potenziale rispetto a un bambino che nasce in una famiglia di venture capitalists milanesi.
L’idea che esistano criteri di merito “universali” non ha un corrispettivo nella realtà: ciò che viene considerato “meritevole” dipende dal contesto storico, sociale, culturale e anche dalle logiche specifiche di potere o di mercato.
In un contesto in cui la fedeltà al capo viene considerata un merito, non necessariamente emergeranno gli individui più talentuosi.
Insomma: noi umani siamo un casino.
La buona notizia è che siamo un casino in modi che, in certi casi, sono prevedibili. Infatti, se accettiamo che non siamo infallibili, possiamo creare dei sistemi per ridurre in modo significativo la nostra fallibilità.
È quello che fecero nel 2000 Claudia Goldin (Premio Nobel per l’Economia nel 2023) e Cecilia Rouse (Preside della Princeton School of Public and International Affairs) condussero uno studio dal titolo “Orchestrating Impartiality: The Impact of ‘Blind’ Auditions on Female Musicians”.
Negli Stati Uniti, diverse orchestre iniziarono a svolgere le audizioni per i nuovi musicisti dietro una tenda, così che la commissione non potesse vederne il genere. Tuttavia, continuavano a scegliere soprattutto uomini. Come era possibile? Poteva essere che gli uomini fossero semplicemente più bravi?
Lo studio scoprì che il suono dei passi (scarpe con tacco, ad esempio) tradiva l’identità femminile, inconsciamente influenzando i giudici. Solo quando si chiese ai candidati di togliere le scarpe prima dell’audizione, le selezioni diventarono effettivamente più eque, aumentando la presenza di donne nelle orchestre - e dunque garantendo che la selezione fosse più meritocratica.
L’autogoal dell’ideologia
C’è al momento una enorme confusione sulle iniziative di Diversity & Inclusion, sia a sinistra che a destra. A sinistra si urla “ecco, le aziende stanno rivelando il loro vero volto! Non glien’è mai fregato niente della diversity!!!” e a destra si urla “Basta con questa fissazione della diversity, che emergano i migliori!!!”
Siamo in un momento storico in cui sembra che sia a destra che a sinistra la questione della diversità e dell’inclusione venga considerata solo come una questione morale, quando numerosi studi condotti dalle più grosse società di consulenza del mondo (non certo collettivi estremisti) hanno dimostrato che gruppi dirigenti variegati aumentano la capacità di generare profitti e innovazione delle aziende.
Se c’è un errore che è stato fatto da alcune elites progressiste è proprio quello di aver trasformato la battaglia per la diversità e l’inclusione in una questione ideologica.
Se crediamo che il talento sia raro, che sia distribuito equamente tra persone di generi, orientamenti sessuali, colori della pelle, classi sociali diverse… è nell’interesse di un Paese, così come di un’azienda, rimuovere gli ostacoli che impediscono a una porzione significativa di talento di esprimersi e di produrre beneficio per la società intera.
Adottare un approccio pragmatico alla questione ci permette anche di guardare i sistemi che implementiamo come perfettibili, di riconoscere le iniziative che funzionano di più e quelli che pensavamo avrebbero funzionato, ma che in realtà non hanno prodotto risultati, senza arroccarci su posizioni che ci impediscono di progredire proprio verso quell’ideale capacità della società in cui il talento riesce a emergere, ovunque si trovi.
E l’Italia?
L’Italia ha un problema grosso dal punto di vista della produttività e della capacità di innovazione. In vent’anni la produttività italiana è cresciuta di appena 2,5 punti.
In Italia, il tasso di occupazione femminile è ancora fermo al 51-51%. E questo non è un problema morale. È una grossa questione economica. Significa che il nostro Paese non usa una gigantesca porzione del talento che ha a disposizione, che non lo usa per produrre ricchezza e innovazione i cui benefici ricadrebbero su tutta la popolazione italiana.
Le quote rosa, il part time, le strutture per l’infanzia, il congedo di paternità, una distribuzione più equa del lavoro di cura della famiglia, e sì - anche le politiche di diversity e inclusion nelle aziende - sono misure che nel loro insieme servono a liberare quel talento, per far sì che sia a disposizione di tutti, perfino di coloro che scagliandosi contro queste misure si illudono di veleggiare indisturbati sull’oceano del proprio raziocinio, quando quello su cui galleggiano è semplicemente un mare di ignoranza.
Si possono elaborare misure migliori? Più efficaci? Senz’altro. Sarebbe meraviglioso trovarle e dovremmo investire per farlo, perché le sfide che stiamo affrontando richiedono la capacità di mobilitare tutto il talento possibile. Gridare “meritocrazia!” non è la proposta di un’alternativa, però. Semplicemente combina, in una sola parola, elitismo e populismo: per questo va così di moda quest’anno.
A giovedì!
Non dimenticarti di invitare i tuoi amici, colleghi e parenti tutt* a iscriversi a Maschi del Futuro!
Ripensare l’educazione dei maschi significa anche aiutarli a non avere paura delle proprie emozioni, a saperle riconoscere e accogliere, perché è solo così che diventiamo davvero liberi di scegliere come agire.
Se sei alla ricerca di un libro che offra ai più piccoli una visione più sana e integra del maschile, Storie Spaziali per Maschi del Futuro fa per te.
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Cara Francesca, come sempre dici tutto e lo dici bene. È triste dover tornare a dover proteggere il "business case for DEI", ma continueremo sempre a farlo.
Grazie ,il tuo pensiero così lucido su quest’argomento, che ha prodotto negli ultimi giorni affermazioni spregevoli soprattutto per le circostanze in cui sono state manifestate, mi fa mantenere la giusta distanza emotiva da queste, senza sfuriate,sei sempre una bussola