#35 Gli adolescenti maschi e i segnali che non riusciamo a cogliere
Del massacro di Paderno Dugnano abbiamo sentito dire che "non c'erano segnali", ma è proprio così? Ne ho parlato con la sociologa Romana Andò.
Vi avevo detto che nel numero di questa settimana vi avrei svelato la copertina di Storie Spaziali per Maschi del Futuro, la mia raccolta di fiabe in uscita su Amazon il 3 Ottobre. Ma, consigliandomi con alcuni di voi sulla chat dedicata a questo progetto, ho deciso di rimandare questo annuncio alla prossima settimana per lasciare invece spazio a una intervista con la Professoressa di Sociologia Romana Andò, che ha scritto un libro bellissimo dal titolo Bravi Ragazzi: così vicini, così lontani. I maschi adolescenti oggi, edito da Giulio Perrone.
Romana Andò è professoressa di Sociologia dei Processi Culturali alla Sapienza di Roma e negli ultimi anni ha fatto ricerca e curato interventi di formazione nelle scuole medie superiori italiane con progetti su adolescenza, disturbi mentali, e analisi delle rappresentazioni mediali.
È evidente che un diciassettenne che accoltella nel cuore della notte suo fratello e i suoi genitori… fa paura. Che scatena in noi reazioni intense, che ci smuove nel profondo. Che cosa ne facciamo dunque di questi “smottamenti”? Come possiamo fare in modo da non farci travolgere dalla violenza di quel gesto, come possiamo fare in modo da creare una cintura che impedisca a quella violenza di propagarsi senza controllo? Questa è la domanda che mi sono fatta, e il motivo per cui ho scelto di offrirvi questa conversazione con la Professoressa Andò.
Questo episodio è un’occasione di pausa. Di riflessione. E, mi auguro, di libertà. Non potevo scegliere un’ospite migliore della Professoressa Andò per questo, spero che troviate la nostra chiacchierata interessante quanto lo è stata per me.
Nella versione audio trovate una versione integrale della nostra conversazione durata circa un’ora, qui invece l’intervista condensata.
FC: Grazie mille del tempo che ci dedica Professoressa.
RA: Grazie a voi.
FC: Il timing di questa intervista non è casuale: questo è un momento in cui moltissimi italiani, moltissime italiane, e molti membri di questa comunità si stanno interrogando su una frase che è stata ripetuta dai media molte volte dalle persone che sono state sentite sui fatti di Paderno Dugnano. Questa frase è “non c’erano segnali”. Il suo lavoro è di cogliere segnali dove altri non ne vedono.
Qual è stata la sua reazione alla notizia di questo massacro?
RA: La narrazione del “non c’erano segnali” è un tipo di narrazione che sicuramente rafforza alcuni nostri bisogni come adulti, di raccontarci che va tutto bene, che è tutto normale, che abbiamo sotto controllo la situazione. Stupisce senz’altro il fatto che nessuno abbia colto il malessere di cui ha parlato il ragazzo quando ha detto che si sentiva isolato socialmente, fuori dal contesto, un estraneo. Le poche cose che abbiamo potuto leggere raccontano un disagio enorme e se questo disagio non è stato raccontato, dobbiamo chiederci perché.
Se c’è un dolore interno così terrificante, e c’è questo muro di incomunicabilità, dobbiamo farci delle domande su quali siano gli ostacoli che hanno impedito a questa comunicazione di avvenire. Credo che questo sia il nodo.
FC: Sostanzialmente la formula “non c’erano segnali” è una specie di autoassoluzione preventiva da parte degli adulti, un modo di stare alla larga dal “non abbiamo saputo cogliere i segnali”.
Devo dire che in questi giorni, però, tanti membri di questa comunità mi hanno detto “guarda io ho figli adolescenti e ti garantisco che è impossibile sapere quello che gli passa per la testa”.
Una delle cose che mi ha colpito del suo libro è che lei racconta che è nato proprio dal desiderio di raccontarsi degli adolescenti maschi che ha incontrato nelle scuole.
Come si spiega questa frattura tra l’esperienza di tanti genitori con figli maschi adolescenti e la sua?
RA: Uno degli aspetti che ho riscontrato nel mio lavoro con gli adolescenti è che moltissimi ragazzi hanno una difficoltà enorme dal punto di vista dell’autostima.
La famiglia è presa da mille cose, e nel passaggio dall’infanzia alla adolescenza i ragazzi sentono la stima dei genitori nei loro confronti venire meno, e la rappresentazione stereotipata è che si chiudano in se stessi e non parlino più.
Ma come possono parlarci se non si sentono riconosciuti come interlocutori?
Se gli parliamo solo per dire loro “fai questo o fai quello”, possiamo averceli sotto gli occhi, eppure possono rimanere invisibili, con le loro porte socchiuse e le cuffiette.
Se invece provassimo a dare loro fiducia, a considerarli come persone che hanno qualcosa da raccontare, qualcosa che può incuriosirci come la loro musica per esempio… forse potremmo riuscire a comunicare meglio.
Le ragazze sono più abituate a parlare di come stanno, è qualcosa che gli abbiamo insegnato. Ai maschi no, quindi bisogna fare uno sforzo maggiore.
FC: Nel suo libro parla dell’importanza dello studio della boyhood. Una parola equivalente in italiano non esiste: è sostanzialmente l’adolescenza maschile, quella fase di passaggio da bambino a uomo. Noi guardiamo a quel periodo con grande superficialità: al massimo come un periodo incasinato in cui i ragazzi gestiscono mille pulsioni diverse, hanno i brufoli, puzzano e… dobbiamo sperare che passi presto.
Perché invece secondo lei è così importante avere una comprensione più profonda dell’adolescenza maschile?
RA: L’adolescenza già di per sé è un ambito di sperimentazione identitaria in cui si mettono alla prova competenze, capacità, emozioni, eccetera. A questo aggiungiamo il fatto che il maschile oggi si trova, come dire, una situazione di vuoto, di buco. C’è una mancanza di modelli per il bambino su cosa voglia dire diventare uomo, e questo buco è drammatico perché manca di appigli.
Noi ci “suturiamo” all’interno di narrazioni che in questo momento mancano per quanto riguarda modelli nuovi e alternativi di maschilità.
La mancanza di questi agganci lascia gli adolescenti, e i maschi in particolare, in balia di una incertezza che rende ancora più difficile la gestione delle emozioni. Ci sono dei modelli di maschilità egemonica che ancora risuonano rispetto a cosa voglia dire essere un uomo, nel frattempo però il contesto è mutato profondamente.
Sono mutate le relazioni sociali con le ragazze, con i genitori, e di fronte a questo mancano gli strumenti per poter costruire un’identità che è sempre comunque in prova ma che comunque possa essere diciamo testata nel corso del tempo.
Alcuni ragazzi quindi magari si costruiscono proprio quell’identità tranquilla, che restituisce quasi un’immagine di perfezione ma è qualcosa di distaccato, che può essere magari un’identità funzionale, ma non è quella più corrispondente al sentire del ragazzo.
La possibilità di tenere più identità in prova, in movimento, è importante nell’adolescenza per conoscersi meglio, e per quanto riguarda i maschi è importante offrire narrazioni che consentano di moltiplicare le possibilità rispetto a quelle statiche e limitate offerte dalla maschilità egemonica.
FC: Ci sono moltissimi video di influencers della mascolinità che spiegano ai ragazzi come essere maschi alfa. Quello è un modo di colmare questo vuoto? Che tipo di presa hanno questi contenuti sugli adolescenti italiani?
RA: Questo focalizzarsi sul maschio alfa è una risposta alla sensazione di incertezza generale che non riguarda solo gli adolescenti italiani, ma è generalizzata. Trovare un punto di riferimento forte sembra spesso la strada più facile, e che ti mette davanti un percorso senz’altro appetibile perché meno esposto a quella precarietà che invece preoccupa in tutti gli altri ambiti.
Questa è una generazione che ha vissuto il Covid, e che ha paura delle malattie in un’età in cui invece prima forse non ci abbiamo mai pensato più di tanto. Se a questo si aggiunge la precarietà del lavoro, la crisi climatica… la ricerca di sicurezza diventa un bisogno impellente.
Questa narrazione funziona molto anche a livello politico, se pensiamo alla crescita dei partiti di destra in tutta Europa.
FC: Facevo riferimento agli italiani perché ho la sensazione che in Italia la retorica del maschio alfa abbia una virata in qualche modo più sentimentale. Ma forse è un’impressione solo mia. Sia nella retorica del malessere (il cattivo ragazzo che piace tanto alle ragazzine - ricordate l’episodio in cui ne parlavo con Diego Passoni?) che in alcuni dei testi della musica trap, non mi sembra che venga espresso soltanto un desiderio di maltrattamento delle ragazze, ma che trovi spazio anche il disagio profondo che ispira questo comportamento… in uno slancio sentimentale che mi sembra in qualche modo contrario alla retorica del maschio alfa che non deve mai mostrare i propri sentimenti…
RA: Sicuramente nella retorica del malessere c’è una romanticizzazione e una glamorizzazione del maschio che ti tratta male, ma questa non è una novità nel panorama della musica italiana. “Grande, grande, grande” di Mina, o “Ti Pretendo” di Raf, descrivono esattamente lo stesso comportamento.
Sono d’accordo sul fatto che queste canzoni esprimano anche un grandissimo disagio. Alcuni di questi cantanti trap come Emis Killa, per esempio, cantano cose anche molto diverse tra di loro e quindi è come se accompagnassero un po’ gli adolescenti nel loro vissuto, offrendo rappresentazione a un grande spettro di emozioni, non solo a una. Penso per esempio a Ricordami di Side Baby, che è quasi un testamento identitario.
Molte di queste canzoni raccontano un grande disagio spesso anche di tipo sociale che riguarda le condizioni di partenza del soggetto, le emarginazioni, che sfociano poi in una sorta di esibizionismo che si esprime anche attraverso un certo tipo di linguaggio nei confronti delle ragazze, oltre che a un’attenzione eccessiva ai brand, ai soldi, al successo… che sono poi valori che noi ritroviamo nelle scuole quando chiediamo ai ragazzi cosa vogliono fare da grandi. Ti rispondono che vogliono il successo, ma anche che vogliono stabilità economica e tempo per sé… ci sono quindi diverse spinte che coabitano nel soggetto. Un maschio alfa magari, ma con molte oscillazioni, e capace di grandissime esternazioni di tipo emotivo.
Alcune delle canzoni della trap che ho analizzato sono ballate in cui c’è una straordinaria rappresentazione dell’amore, in cui viene raccontato il dolore dell’abbandono, il sentimento di star bene insieme.
In queste canzoni sentimenti molto diversi tra loro coesistono e questo è molto importante.
FC: Oggi si usa l’espressione ‘maschio bianco etero cis’ quasi come se fosse una locuzione utile solo a insultare qualcuno, e l’etichetta ‘mascolinità tossica’ viene distribuita diciamo in modo molto generoso. Secondo lei questo modo di parlare di maschilità serve a qualcosa o a qualcuno?
‘Mascolinità tossica’ è un’etichetta che non ha fondamento sul piano scientifico, e spesso viene usata come se fosse un sinonimo di maschilità egemonica che è quel modello di maschilità tradizionale che si è tramandato nella nostra società e che oggi è appunto in crisi.
Parlare nei termini in cui spesso lo si fa di ‘maschi bianchi etero cis’ crea uno stereotipo, e cioè l’idea che esista qualcuno che incarna in modo fisso e ripetibile tutta una serie di caratteristiche. L’idea di attribuire in modo automatico a delle persone i comportamenti associati a questa etichetta come se fossero dei manichini mi sembra sbagliata, anche perché la caratteristica non solo dell’adolescente ma anche dell’individuo contemporaneo è la variabilità.
Non solo, ma questo tipo di caratterizzazione crea l’idea che i maschi bianchi etero cis siano, come dire, “portatori sani” di mascolinità tossica, e che in quanto tali vanno affrontati, corretti, riorientati, etc.
Tutto questo porta, dal mio punto di vista, a generare come effetto una ulteriore radicalizzazione di un certo tipo di comportamenti distruttivi. Cioè, invece di aprire un dialogo demonizza sotto questa etichetta il maschio in quanto maschio, etero, cis. In altre parole, gli attribuisce delle colpe innate.
Questo tipo di approccio spinge i ragazzi a chiudersi in se stessi, e a esibire esattamente quel tipo di comportamenti distruttivi. Si tratta di un circolo vizioso che va interrotto.
Accanto alla consapevolezza che deve accompagnare i fenomeni di violenza e abuso, bisognerebbe capire quali altri modelli di maschilità possiamo proporre, quali altre tipologie di rapporto col femminile per esempio si possono avere. Sono tutti temi che vengono discussi pochissimo.
FC: Sono molto d’accordo con lei sulla necessità di offrire delle narrazioni che creino degli spazi nuovi da abitare, e mi sono confrontata con questo tema a lungo, perché nel corso degli ultimi due anni ho lavorato alla scrittura di una raccolta di fiabe che ha esattamente questo obiettivo e che uscirà il 3 ottobre col titolo Storie Spaziali per Maschi del Futuro. Devo confessarle che è la cosa più difficile che abbia mai scritto. Perché è così difficile offrire nuove narrazioni della maschilità?
RA: Abbiamo fatto un percorso simile! Io vengo da una ricerca sulle ragazze e a un certo punto mi sono chiesta “e i maschi?”, e lei viene da un lavoro sulle bambine e a un certo punto si è chiesta “e i bambini?”.
Innanzitutto è importante renderci conto che questo percorso di ricerca sul maschile è stato possibile grazie all’apertura che abbiamo creato sulla rappresentazione del femminile. Per quanto quello non sia un capitolo chiuso e ci sia ancora molto lavoro da fare, possiamo dire che quel passaggio da un mondo in cui le figure femminile potevano essere solo figure minori… lo abbiamo fatto.
Ora è il momento di fare un altro passaggio. Ed è difficile, ma se non lo facciamo il rischio è di lasciare un pezzo indietro, che più andiamo avanti e più rimane indietro e separato.
Per fortuna iniziano ad esserci esempi interessanti come “Prisma”, la serie tv su Amazon diretta da Ludovico Bessegato (ne abbiamo parlato in questa intervista su Maschi del Futuro, ndr). Mi fa piacere segnalare anche un altro film che ho appena visto perché è alla Mostra del Cinema di Venezia e si intitola “Il mio compleanno” di Christian Filippi.
Queste narrazioni offrono ai ragazzi delle negoziazioni identitarie diverse, più sfaccettate, nuove.
FC: A proposito di negoziazioni identitarie, nel suo libro lei parla dello spogliatoio come di un luogo in cui i maschi negoziano la propria identità. Che cosa succede negli spogliatoi?
RA: Lo spogliatoio è un luogo terrificante, perché è un luogo in cui ci si presenta nudi non solo fisicamente, perché quella diventa anche una nudità emotiva. Lo spogliatoio è un luogo di confronto tra pari, ma è anche un luogo in cui ci si confronta con il modello del corpo maschile che deve essere muscoloso, con alcune caratteristiche dal punto di vista delle dimensioni genitali… siamo stati socializzati per credere che ci sia un solo tipo di corpo che può dare accesso ad una vita desiderabile dal punto di vista sociale, sessuale, e questo tipo di pressione spesso dà luogo anche nei maschi a problemi alimentari come la vigoressia (un disturbo psicologico che nasce dal vedersi troppo magri e poco muscolosi), di cui si parla ancora troppo poco.
Quando ho chiesto a molti degli adolescenti maschi con cui ho lavorato che cosa pensassero del loro corpo, la maggior parte mi ha risposto che non era a suo agio col suo corpo. Pensiamo che questo sia un tema solo femminile, ma invece riguarda moltissimo anche i maschi.
FC: Mi è rimasta impigliata in testa la cosa che ha detto all’inizio della mancanza di stima dei genitori nei confronti dei ragazzi, soprattutto alla luce dei diversi strati di insicurezza che stanno emergendo in questa conversazione e che riguardano la salute, il clima, la propria posizione nel mondo… se penso alle persone che conosco che hanno figli maschi di quell’età, devo riconoscere che molti ne parlano come se fossero dei cretini.
Sicuramente sono genitori che vogliono moltissimo bene ai figli, ma ne parlano come se fosse impossibile affidargli qualsiasi responsabilità, come se fossero bambini quasi. E sto pensando, ma quindi non sono casi isolati… si tratta di un atteggiamento generalizzato che abbiamo oggi nei confronti dei maschi sui quali forse non c’è più la proiezione che c’era un tempo magari sul rampollo di famiglia, e dunque - a differenza delle figlie che sono magari una generazione di bambine ribelli - si trovano in un vuoto proiettivo da parte delle famiglie?
RA: È proprio così. E purtroppo sotto questo aspetto la scuola potrebbe dare un contributo importante, ma non lo fa. I maschi a scuola sono trattati come quelli che danno più problemi, che sono casinari, ma spesso si vedono trattati anche lì con un forte pregiudizio.
Si arriva a dire a un ragazzo che ha fatto un buon compito “mi hai sorpreso, questo compito non è da te”, che potrebbe sembrare un complimento, ma è un modo di dire “ho un giudizio su di te che non cambierà, anche se fai una cosa buona”.
La scuola dovrebbe avere a cuore e lavorare sull’autostima dei ragazzi, questo è un nucleo importante del lavoro che noi facciamo nelle scuole.
Se non ci aspettiamo niente dai ragazzi, come è possibile che sviluppino una sana autostima?
Io sono molto critica anche nei confronti dei genitori che esercitano queste forme di controllo ossessive, con app che tracciano la posizione dei ragazzi di notte per esempio. Anche questo tipo di controllo riflette una mancanza di fiducia, di stima, perché se hai fiducia in qualcuno gli dai spazio e libertà di sperimentare - esattamente come abbiamo fatto noi quando avevamo quell’età, ma forse ce ne siamo dimenticati.
FC: Con la mia penultima domanda, torniamo alla violenza. E agli omicidi cosiddetti “senza movente”, come quello di Paderno Dugnano. Lei nel suo libro parla di altri due omicidi senza movente: quello di Willy Duarte per mano dei fratelli Bianchi, e quello di Luca Varani per mano di Marco Prato e Manuel Foffo. Perché, secondo lei, è fuorviante usare l’espressione “senza movente”?
RA: Quando si parla di movente, ci si immagina sempre che si tratti di un movimento verso l’altro, della ragione per cui si fa del male a un altro, ma la violenza non funziona solo così.
Spesso la violenza è una manifestazione di forza, un modo di affermare la propria superiorità, un modo per nascondere una fragilità, o una debolezza: in questi casi il movente esiste, ma non riguarda l’altro, riguarda se stessi. L’altro, in questi casi, per l’omicida scompare: è la vittima casuale di un discorso che l’omicida sta facendo con la comunità davanti alla quale si vuole rappresentare, e con se stesso.
Il movente esiste quindi, ma è un movente interno, non esterno.
I fratelli Bianchi usano le botte per affermare il loro ruolo di “rider della violenza” - ossia di coloro che vengono chiamati quando c’è qualcuno da picchiare - nella loro comunità (consiglio l’ascolto del podcast di Christian Raimo in merito); Manuel Foffo usa la violenza per attaccare una parte di sé che forse è incapace di accettare, quasi come se l’omicidio di Varani rappresentasse una sperimentazione del sé al negativo (come viene evidenziato in La città dei vivi, di Nicola La Gioia).
Il ragazzo di Paderno Dugnano dice che pensava che ammazzando la sua famiglia si sarebbe liberato del suo malessere, ma che si è accorto che non sarebbe stato così.
FC: Questo per quanto riguarda la violenza che gli uomini agiscono contro altri uomini, ma è diverso per quanto riguarda la violenza che gli uomini agiscono contro le donne? Nel suo libro cita il lavoro di Marina Valcarenghi che - sono orgogliosa di dire - ha scritto la postfazione di Storie Spaziali per Maschi del Futuro. In che modo il lavoro di Valcarenghi ha influenzato la sua comprensione della violenza contro le donne?
RA: Per me guardare “Il popolo delle donne” (il film di Yuri Ancarani che consiste di una lezione di Marina Valcarenghi sulla violenza contro le donne, ndr) è stato liberatorio.
Valcarenghi ha lavorato per molti anni in carcere con uomini che hanno commesso violenze contro le donne e ha una conoscenza molto approfondita del fenomeno. È una cosa difficile da dire, ma Valcarenghi è in grado di presentare una visione “pacificata” del fenomeno della violenza, come della soluzione che molti di questi uomini adottano perché non sono equipaggiati per affrontare questo cambiamento.
Usano, in altri termini, la violenza per mantenere lo status quo. La violenza, quindi, nasce soprattutto da un problema di educazione, di formazione.
Valcarenghi racconta come alcuni degli uomini che ha avuto in terapia non sopportassero di avere un capo donna, come vivessero qualsiasi avanzamento delle donne intorno a loro come un tentativo di usurpare quello che - credono - debba essere il loro posto nel mondo.
Si tratta, in altri termini, di non avere alcun altro strumento per elaborare questo cambiamento, per reagire, per negoziare, ma visto quanto è significativo il fenomeno dei femminicidi, fornire questi strumenti e affrontare insieme questa transizione è cruciale.
FC: Grazie mille Professoressa, è stato un piacere parlare con lei.
RA: Grazie a voi.
Ho lavorato a perdifiato per mettere insieme questa intervista in tempo per il numero di questa settimana. Mi auguro che vi abbia lasciato degli spunti interessanti. Se trovate valore in questo progetto, sottoscrivete un piccolo abbonamento e unitevi ai 110 valorosi che lo hanno già fatto.
Nel numero della prossima settimana vi faccio vedere Storie Spaziali per Maschi del Futuro, perché dopo due anni di lavoro non riesco più ad aspettare.
A GIOVEDÌ!
Vediamoci dal vivo:
7 Settembre a Cusercoli (Forlì) al Come Acqua Festival
21 e 22 Settembre a Piacenza al Festival del Pensare Contemporaneo
27 Settembre a Milano al Mix Festival
28 Settembre a Rovereto al Wired Next Fest
La parte più interessante, da genitore, è quella che riguarda la questione della fiducia e dell'autostima del (nel mio caso) preadolescente. Purtroppo è molto vero che in una famiglia nucleare come la mia senza nessun aiuto esterno le cose da fare sono mille e molto spesso la comunicazione tra i familiari diventa solo una "to do list" che poi se non viene smazzata crea casini e malumori. Parlare di cosa proviamo diventa difficile quando siamo tutti stanchi, ma un tentativo va fatto sempre. Grazie per questa uscita!
Dopo aver letto questo articolo, avendo un figlio maschio quindicenne, ho ancora più dubbi su come fare a crescere un ragazzo.